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I vestiti nuovi dell’Imperatore
e la messa in fuorigioco della speculazione edilizia
(breve annotazione a Cass. Penale sez.III 40694/29.09.2016)
Con la sentenza 40694 depositata il 29.09.2016, la III° Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha denudato l’Imperatore e messo in fuorigioco la massimizzazione dello sfruttamento del suolo ai fini edilizi.
Annullando un’ordinanza del Tribunale del riesame di Salerno e – per l’effetto – facendo tornare in vita il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP di taluni edifici aventi altezza pari a ml 22,00 e distanti tra loro ml 10,60, la Suprema Corte ha affermato che l’edificazione in quel di Pontecagnano (in sostanza in tutta Italia) sta avvenendo ed è avvenuta in violazione dell’art.9, comma terzo, del DM 1444/1968 perché:
in tutte le zone, compreso anche le zone A e le zone C, la distanza tra fabbricati non può mai essere inferiore a ml 10,00 e comunque mai inferiore all’altezza del fabbricato più alto;
il suddetto limite non può essere derogato nemmeno a mezzo dei piani attuativi perché il secondo periodo del terzo ed ultimo comma dell’art.9 DM 1449 DM 1444/1968, riferendosi espressamente ai commi precedenti e non al periodo precedente del medesimo terzo comma, delinea l’ambito applicativo della deroga, rendendo assolutamente inderogabile la distanza tra fabbricati pari all’altezza dell’edificio più alto.
La pronuncia di cui sopra conferma quanto sostenuto – illo tempore – sull’autorevole rivista digitale LEXAMBIENTE:
http://www.lexambiente.com/materie/urbanistica/
184-dottrina184/11489-urbanistica-distanze-tra-fabbricati.html
http://www.lexambiente.com/materie/urbanistica/
184-dottrina184/8957-urbanistica-distanze-tra-fabbricati.html
Così si è espresso il Collegio (Pres. Fiale, Rel. Andreazza):
“… Ciò posto, ed incontestato che, nella specie, si abbia riguardo a costruzioni effettuate in zona D (e dunque ad edifici posti, secondo la dizione dell’art. 9, comma 1, n. 2, “in altre zone” nel senso di zone appunto diverse dalla zona A e dala zona C espressamente richiamate rispettivamente dai nn. 1 e 3 del comma 1), appare coerente con il dato normativo l’assunto del P.M. ricorrente secondo cui la disposizione dell’ultimo comma sopra evidenziata debba applicarsi ANCHE a tali diverse zone: da un lato la formulazione generale di una disposizione posta “a chiusura” dell’articolo e riferita testualmente alle distanze “come sopra computate”, ivi dovendo intendersi dunque (anche in ragione dell’ulteriore espresso richiamo ai “precedenti commi” SIA PURE AL FINE DI CHIARIRE LO SPAZIO DI OPERATIVITA’ DELLA DEROGA prevista per i piani particolareggiati o le lottizzazioni convenzionate) in esse comprese anche le distanze per le “altre zone”, non può lasciare dubbi sulla sua portata omnicomprensiva e, dall’altro, anche sotto il profilo sistematico, non si comprenderebbe perché, come sostenuto dall’ordinanza impugnata, per le parti del territorio destinate a nuovi insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati (tale essendo le zone D come definite dall’art. 2 del d.m. cit.), tale norma di chiusura (che ragguaglia come detto la distanza a quella raggiunta in altezza dal fabbricato più alto) non dovrebbe essere applicabile.
Del resto il censurato dal Tribunale, risultato di omogeneità cui si giungerebbe per effetto della generalizzata applicazione dell’ultimo comma, lungi dall’essere il frutto di una distorsione interpretativa (secondo l’ordinanza impugnata erroneamente propugnata dal consulente del P.M.), sarebbe a ben vedere, in realtà, l’esito della stessa volontà del legislatore che a tale omogeneità ha peraltro derogato laddove, come già visto, ha previsto la possibilità di distanze inferiori a quelle indicate nei commi 1 e 2 nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche.
Né in senso contrario possono condurre le citate, dal Tribunale, sentenze del T.a.r. Lombardia n. 671 e 1429 del 2012 poche che anzi, secondo quanto affermato dal Cons. di Stato nella più recente pronuncia di Sez. 4, n. 2130 del 17/03/2015, l’art. 9 cit. prevede, segnatamente in ipotesi di costruzione di nuovi edifici ricadenti in altre zone, che “la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti corrisponde a 10 metri, con obbligo di aumento della distanza sino all’altezza del fabbricato finitimo più alto, se questo sia maggiore di 10 metri”, restando così confermata la valenza generale del comma 2 dell’art. 9 cit.”.
La critica, costruttiva, che mi sento di fare ai Giudici della Cassazione è che la motivazione poteva essere più approfondita.
Infatti, la norma invocata dal P.M. per chiedere l’annullamento dell’ordinanza di dissequestro è chiaramente volta ad affermare la primazia della sicurezza delle costruzioni, della tutela dell’incolumità delle persone e della salute dei cittadini rispetto al disegno urbanistico della città.
Lo Stato ha voluto dire alle Regioni e ai Comuni che la loro potestà legislativa e regolamentare in materia di governo del territorio – esprimenti nei piani attuativi derogatori delle generali limitazioni edilizie – non può spingersi al punto tale da mettere a repentaglio i suddetti valori primari la cui tutela spetta unicamente allo Stato.
In ogni caso, onore al merito dei Giudici della Suprema Corte perché questa sentenza sarà una pietra miliare contro l’abusivismo edilizio e la deregulation nello sfruttamento del territorio, finendo per mettere in fuorigioco anche le iniziative urbanistico-edilizie in corso nei centri densamente abitati e per portare alla luce il fatto che l’imperatore (la Pubblica Amministrazione – gli uffici tecnici comunali – i Sindaci cementificatori) è nudo perché tale violazione dell’art. 9 DM 1444/1968 è insanabile.
Ed inefficaci (perché nulli) sono i permessi di costruire rilasciati in assenza di tale presupposto (vedi art. 12 DPR 380/2001, non a caso rubricato “Presupposti per il rilascio del permesso di costruire”), atteso che il dirigente dell’UTC e il Consiglio comunale si sono sostituiti, del tutto inammissibilmente, al legislatore statale innovando la fonte normativa con un titolo abilitativo e/o con una deliberazione consiliare contrastante con una norma di legge assolutamente inderogabile e perciò esprimente il seguente principio fondamentale della materia del governo del territorio: «Un edificio non può essere più alto della distanza che lo separa dai fabbricati contermini».
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OCCORRE FARE CHIAREZZA
IN TROPPI PARLANO SENZA SAPERE COSA DICONO
PRIMO TRA TUTTI IL SINDACO
Il Centro Storico di Massa – così come da espressa perimetrazione – è stato dichiarato di notevole interesse pubblico con Decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali del 21 Novembre 1999 [cod.95014].
Di conseguenza, è divenuto soggetto al c.d. Vincolo Paesaggistico imposto ai sensi della Legge 1497/1939 (oggi ricompresa nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, di cui al D.lgs 22 gennaio 2004, n. 42).
TUTTO QUESTO SIGNIFICA CHE IL CENTRO STORICO DELLA NOSTRA CITTADINA NON E’ “SOLO NOSTRO”: E’ PATRIMONIO PUBBLICO A SCALA NAZIONALE CHE, IN QUANTO TALE, PER GLI ASPETTI CHE ESULANO L’ORDINARIETA’, DEVE ESSERE TUTELATO NEL RISPETTO DELLE DISPOSIZIONI IMPARTITE DALLA COMPETENTE SOPRINTENDENZA E NON CERTO DAL SINDACO…
Tuttavia, per ciò di cui si sta dibattendo in questi giorni, è doveroso riferirsi al disposto della Parte II del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio e NON già a quello della Parte III.
E’ di tutta evidenza, infatti, che l’eventuale espressione favorevole dell’organo periferico statale – avente competenza anche ai sensi dell’art.146 del Codice – rende inutile l’esame di compatibilità paesaggistica da parte del Comune (il quale è tenuto a conformarsi al giudizio del Soprintendente).
L’art.10, comma 4, lettera g) del D.lgs 22 Gennaio 2004, n.42, non lascia spazio alle interpretazioni e sancisce chiaramente che anche le pubbliche piazze, le vie, le strade e gli altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico sono beni CULTURALI.
Ciò può sembrare un controsenso perché, in fondo, si parla di “paesaggio” urbano; ma così non è.
Il Legislatore, infatti, ha voluto espressamente assimilare taluni particolari ambiti urbani di pregio – nella loro complessità – ai monumenti stessi che ne qualificano i caratteri urbanistico-architettonici.
E, in termini pratici, ha voluto che il parere espresso al riguardo fosse NON SOLO OBBLIGATORIO MA ANCHE VINCOLANTE (diversamente da quello reso per i Beni Paesaggistici).
Occorre ricordare anche che, sebbene comunque rilasciato per il tramite della Soprintendenza, il parere sugli interventi riguardanti i Beni CULTURALI è competenza del Ministero mentre quello sugli interventi riguardanti i Beni PAESAGGISTICI è competenza della Regione.
Ricondurre la questione solamente alle definizioni di cui all’art.134 e alle disposizioni di cui all’art.146 Ź dunque arbitario, riduttivo e omissivo.
TANTO PIU’ QUANDO – CONCETTO LAPALISSIANO – IL VINCOLO MONUMENTALE INTEGRA QUELLO PAESAGGISTICO.
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All’art.21, comma 4, Parte II, del Codice di Beni Culturali e del Paesaggio si legge:
Interventi soggetti ad autorizzazione.
4. Fuori dei casi di cui ai commi precedenti [elenco macrocasistico], l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere su beni culturali è subordinata ad autorizzazione del Soprintendente. Il mutamento di destinazione d’uso dei beni medesimi è comunicato al Soprintendente per le finalità di cui all’articolo 20, comma 1.
All art.146, commi 1 e 2, Parte III, del Codice di Beni Culturali e del Paesaggio si legge:
Autorizzazione.
1. I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili e aree oggetto degli atti e dei provvedimenti elencati all articolo 157, oggetto di proposta formulata ai sensi degli articoli 138 e 141, tutelati ai sensi dell articolo 142, ovvero sottoposti a tutela dalle disposizioni del piano paesaggistico, non possono distruggerli, ne introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione.
2. I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo dei beni indicati al comma 1, hanno l’obbligo di sottoporre alla regione o all’ente locale al quale la regione ha affidato la relativa competenza i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, al fine di ottenere la preventiva autorizzazione.
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Come si evince da quanto sopra, qualunque intervento si intenda effettuare sui Beni Culturali o qualunque intervento possa recare pregiudizio ai Beni Paesaggistici DEVE essere sottoposto al parere della Soprintendenza.
Ma, pur trattandosi di un parere obbligatorio in ENTRAMBI i casi, SOLO nel secondo caso è da ritenere NON VINCOLANTE.
Col DPCM 12 Dicembre 2005, inoltre, sono stati definiti i criteri generali per la redazione della Relazione Paesaggistica e i contenuti minimi essenziali di essa.
Col DPR 139/2010, invece, si è varato il Regolamento recante il procedimento semplificato di Autorizzazione Paesaggistica per gli interventi di lieve entità (definendo e riconoscendo, quindi, alla buon’ora, questi ultimi).
Ciononostante, non si hanno ancora gli strumenti per interpretare al meglio la normativa vigente.
Con la vestizione del vincolo di cui al codice ministeriale 95014, infatti, si è preso a riferimento NON SOLO quanto indicato alla lettera c) dell’art.136 del Codice MA ANCHE quanto indicato alla lettera d).
Tale opportuna differenziazione degli interventi – più volte disconosciuta – dovrebbe far riflettere e indurre a muovere di conseguenza.
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Giova ricordare che la ratio di quanto all’art.1, comma 1, del DPR 139/2010, è quella di individuare gli interventi di “lieve entità” da assoggettare a procedura semplificata.
Più che chiaro, pertanto, dovrebbe risultare quando ricorrere NECESSARIAMENTE alla procedura ordinaria (ben complessa e, talvolta, inutile) anziché a quella semplificata.
Spesso, infatti, per quanto indicato all’art.136, comma 1, lettera d) del Codice, la norma NON PONE preclusione alcuna [vedasi l’elenco delle tipologie di lavori soggette ad Autorizzazione Paesaggistica semplificata di cui all’allegato 1 del DPR 139/2010].
DA TUTTO CIO’ IL RESTO…
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