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Animal_Farm_-_1st_editionLa sentenza 6873 del 14.02.2017 della III^ Sez. della Cassazione Penale sarebbe passata sotto traccia se non avesse riguardato Palazzo Tornabuoni ovverosia il salotto fiorentino alias governativo…

I fiorentini tutti – amministratori, tecnici, operatori edili, avvocati ecc. – sembra che solo ora abbiano capito che il Granducato di Toscana non esiste più, essendo stati chiamati a rispettare le leggi dello Stato italiano.

La Cassazione non ha fatto altro che riaffermare principi di diritto urbanistico già contenuti in numerose sentenze di legittimità penale e del Giudice amministrativo: il mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante è sempre, quantomeno, intervento di ristrutturazione edilizia (cfr. ex plurimis: Cass. penale, 1156/2008; 31135/2008; 43807/2008; 2877/2009; 42913/2009; 34769/2011; 31465/2014; 30863/2015; 39374/2015 – Cons. Stato, 4258/2012; 2295/2017) ed in Zona A ex DM 1444/1968 occorre il permesso di costruire anche per quello compatibile con l’organismo edilizio (come nel caso del restauro e risanamento conservativo – cfr. Cass. penale, 35640/2007; 42915/2009).

Una volta pizzicati dal Giudice, ecco che subito fioriscono articoli di stampa (Il Sole 24 Ore, Repubblica Firenze, Corriere Fiorentino ecc.) e proposte di legge al fine di far rientrare i mutamenti di destinazione d’uso urbanisticamente rilevanti nella categoria d’intervento del restauro.

Ancora una volta non viene compreso che ai sensi dell’art.4 della legge 1150/1942 le norme sull’attività edilizia sono funzionali per l’attuazione della disciplina urbanistica contenuta – o da obbligatoriamente contenersi [vedi DM 1444/1968] – nei piani regolatori, in guisa che a specifici insediamenti (residenziali, commerciali, artigianali-industriali, direzionali) corrisponda una quantità minima prefissata di spazi pubblici, tra loro diversi e non fungibili, da destinare ad opere di urbanizzazione primaria e secondaria (le quali, ovviamente, devono essere realizzate).

Pertanto, anche ai sensi dell’art.3, comma 1, lettera e) DPR 380/2001, non si ha nuova costruzione solamente quando viene realizzato, per la prima volta, un edificio, ma anche quando le modifiche apportate a quello esistente siano tali da farlo transitare tra categorie urbanistiche ex DM 1444/1968.

In sostanza, si ha nuova costruzione allorquando viene variato almeno uno dei termini dell’endiadi “destinazione d’uso dell’edificio – standard urbanistici ex artticoli 3 e 5 DM 1444/1968”.

Del resto, il mutamento di destinazione d’uso di un edificio direzionale in residenziale in niente differisce dalla costruzione ex novo di un edificio residenziale riguardo all’entità e qualità di servizi che il Comune è costretto ad assicurare (sempreché voglia, o gli sia imposto di, rispettare la legge dello Stato chiamata art.41-quinquies Legge 1150/1942 e DM 1444/1968).

E siccome la destinazione d’uso è un elemento essenziale e qualificante una costruzione, ecco che anche ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera e) TUE sono interventi di nuova costruzione «… quelli di trasformazione edilizia E URBANISTICA del territorio NON RIENTRANTI nelle categorie definite alle lettere precedenti».

Concludendo, il mutamento di destinazione d’uso di una costruzione è sempre NUOVA COSTRUZIONE qualora avviene tra categorie diverse ex DM 1444/1968 e gli standards urbanistici non sono reperiti e realizzati nel concreto.

E la dimostrazione che gli standard esistano non solo nella carta, ma anche in realtà deve essere fornita tanto dall’interessato all’intervento, quanto dai tecnici comunali. Diversamente si chiama abuso d’ufficio.

Saremo chiamati a leggere sulla Gazzetta Ufficiale la Fattoria degli Animali in salsa fiorentina?

Con il DPR 13 Febbraio 2017, n. 31, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 68 del 22 Marzo 2017, in vigore dal 6 Aprile 2017, il Legislatore Statale ha stabilito al punto A.2 dell’Allegato A (Interventi ed opere in aree vincolate esclusi dall’autorizzazione paesaggistica) che la realizzazione o la modifica di aperture esterne o di finestre a tetto, purché tali interventi non interessino i beni vincolati ai sensi del Codice, art.136, comma 1, lettere a), b) e c) limitatamente, per quest’ultima, agli immobili di interesse storico-architettonico o storico-testimoniale, ivi compresa l’edilizia rurale tradizionale, isolati o ricompresi nei centri o nuclei storici, NON E’ SOGGETTA AD AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA.

Il vincolo paesaggistico imposto sul centro storico di Massa Marittima è stato qualificato appartenente alla categoria di bene paesaggistico ex art.136, comma 1, lett.c) e lett.d) nel procedimento di vestizione che ha portato alla redazione del Piano Paesaggistico della Regione Toscana.

Pertanto, può affermarsi, senza timore alcuno di smentita, che l’apertura o la modifica di finestre o porte nelle facciate degli edifici non puntualmente notificati ai sensi della Parte II del DLGS 42/2004 – o di finestre sulle coperture dei medesimi – non è soggetto ad autorizzazione paesaggistica purché siano rispettati gli eventuali piani del colore vigenti nel comune e le caratteristiche architettoniche, morfo-tipologiche, dei materiali e delle finiture esistenti.

Ma vi è di più.

A differenza del precetto ricavabile dall’art.7 della legge 1497/1939 (“E’ vietato modificare l’aspetto esteriore dei beni in assenza dell’autorizzazione paesaggistica”), l’art.146 del Codice ha stabilito – con disposizione vigente quantomeno a far data dal 12.05.2006, entrata in vigore del 1° correttivo, se non da subito – che l’autorizzazione è necessaria non più se viene modificato l’aspetto esteriore dei beni immobili, bensì se viene arrecato pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione.

Dal momento che il precetto ex art.146 DLGS 42/2004 non ha conosciuto modifiche, ne sovviene che attraverso la disposizione del DPR 31/2017 che esonera dal chiedere ed ottenere l’autorizzazione per sittali interventi il Legislatore ha effettuato un’operazione di interpretazione autentica – avente efficacia retroattiva – dell’art.146 medesimo.

Per l’effetto, non solo tali interventi non potevano mai costituire reato paesaggistico, ma addirittura non doveva nemmeno chiedersi la valutazione di compatibilità paesaggistica ai fini dell’ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica a sanatoria.   Ne consegue ulteriormente che eventuali somme incamerate dal Comune a titolo di danno ambientale devono essere ripetute a coloro i quali le hanno versate.

Ai sensi dell’art.2935 c.c. la prescrizione del diritto inizia a decorrere dal momento in cui lo stesso può essere fatto valere.

Non vi è dubbio che finora, stante la costante giurisprudenza amministrativa e penale, si era creato un diritto vivente che era ostativo all’istanza di ripetizione delle somme versate.

Ne consegue che dal 06.04.2017, e per cinque anni, coloro i quali hanno versato somme per danno ambientale che il Comune non aveva titolo a richiedere, hanno il diritto a richiederne il rimborso.

Massetani, fate vobis…

Il suolo pubblico entro il perimetro urbano sottoposto a tutela DEVE – e non PUO’ – essere allestito previo ottenimento della prescritta autorizzazione ministeriale ex art.21 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.

Con Decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali del 24.11.1999, il Centro Storico di Massa Marittima è stato dichiarato di notevole interesse pubblico e, di conseguenza, è gravato dal Vincolo Paesaggistico [Codice Ministeriale 95014, Codice Regionale 9053324].

Pur tuttavia, apprestandosi a compiere un qualsiasi intervento – edilizio o meno – che incida stabilmente sull’aspetto esteriore della proprietà pubblica entro l’ambito tutelato, è doveroso procedere nel disposto di cui alla Parte II del Codice Urbani e non di quello di cui alla Parte III.

L’art.10, comma 4, lettera g) del DLGS 22 Gennaio 2004, n.42, infatti, non lascia spazio alle interpretazioni e sancisce chiaramente che anche “le pubbliche piazze, le vie, le strade e gli altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico sono BENI CULTURALI”.

Non a caso, con la c.d. “vestizione” del Vincolo, si è preso a riferimento NON SOLO quanto indicato alla Lettera c) dell’art.136 del Codice MA ANCHE quanto indicato alla Lettera d) [così come modificate – rispettivamente – dall’art.6, comma 1, DLGS 157/2006, poi dall’art.2, comma 1, lettera f), n.2), DLGS 63/2008 e dall’art.2, comma 1, lettera f), n.3), DLGS 63/2008].

Il Legislatore, infatti, più che giustamente, ha inteso assimilare taluni particolari ambiti urbani di pregio – nella loro integrale complessità – ai monumenti stessi che li descrivono e ne qualificano i caratteri urbanistico-architettonici.

E, in termini pratici, ha voluto che il parere espresso al riguardo fosse NON SOLO OBBLIGATORIO MA ANCHE VINCOLANTE (diversamente da quello reso per i Beni Paesaggistici).

Giova ricordare che, sebbene sempre e comunque rilasciato per il tramite della Soprintendenza, il parere sugli interventi riguardanti i BENI CULTURALI è competenza del Ministero mentre quello sugli interventi riguardanti i BENI PAESAGGISTICI è competenza della Regione.


tratto da:  www.lexambiente.it

 

Urbanistica contrattata: quanto?
di Massimo GRISANTI

 

La vicenda della costruzione del nuovo stadio dell’A.S. Roma calcio stimola a verificare se vi è un limite alla contrattazione nel determinare le regole dell’uso del territorio.

Innanzi tutto la Corte costituzionale nella sentenza 5/1980 ricordò che lo ius aedificandi inerisce al diritto di proprietà ma il suo esercizio è limitato o condizionato nell’interesse pubblico a mezzo delle regole contenute nel complesso della disciplina urbanistica.

Ma la Corte disse di più: “E’ indubbiamente esatto che il sistema normativo attuato per disciplinare l’edificabilità dei suoli demanda alla pubblica amministrazione ogni determinazione sul se, sul come e anche sul quando della edificazione …”.

Fermo restando che, ovviamente, la determinazione di rendere edificabili i suoli, e in quale misura, è di esclusiva spettanza della P.A. occorre chiedersi se la sua decisione possa essere influenzata dall’iniziativa privata.

Troppo spesso in giurisprudenza e dottrina ricorre la convinzione che l’urbanistica possa essere contrattata ad ogni livello.

Innanzi tutto le convenzioni urbanistiche sono divisibili in due tipi: quelle ex art. 11 L. 241/1990 che servono ad integrare o sostituire il provvedimento abilitativo (e il caso qui non ricorre) e quelle di lottizzazione ex art. 28 L. 1150/1942 previste anche per i piani di recupero ex L. 457/1978.

Mentre per quelle ex art. 11 L. 241/1990 sono dichiaratamente applicabili le disposizioni in tema di obbligazioni e contratti, l’art. 13 l.c. prescrive che per la formazione dei piani urbanistici restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione. Le particolari norme.

Utilizzando la locuzione “particolari norme” dopo aver detto – in tema di partecipazione dei cittadini al procedimento amministrativo – che addirittura si può fare ricorso alla contrattazione per la definizione del contenuto discrezionale del provvedimento amministrativo, il legislatore ha chiaramente ricordato l’esistenza di limiti invalicabili nel contatto tra cittadini e P.A., rinvenibili nella disciplina pianificatoria.

Limiti fissati a tutela della genuinità delle decisioni dei rappresentanti del popolo a cui i cittadini hanno messo in mano la loro sovranità. Il cui solo tentativo di influenzarle può configurare reato.

Si pensi, ad esempio, che gli articoli 9 e 15 della Legge Urbanistica 1150/1942 non contemplano l’istituto delle osservazioni da parte dei cittadini, ammettendole solamente per i portatori di interessi diffusi di rilievo pubblicistico. E la convenzione di lottizzazione è stata ammessa per piani urbanistici di dettaglio chiamati a definire scelte generali già compiute.

E laddove disposizioni di leggi particolari consentono ai Comuni di variare il PRG dietro proposte di soggetti privati, tale facoltà trova un limite invalicabile nell’art. 4 L. 1150/1942 che – prescrivendo l’impermeabilità dei principi fondamentali rispetto a disposizioni contenute aliunde rispetto alla LUN – impone l’esclusiva riferibilità del contenuto essenziale del piano regolatore generale (art. 7) alla P.A.

Con la conseguenza che le particolari disposizioni di legge che consentono di variare il PRG su iniziativa di parte trovano il limite nel combinato disposto degli articoli 4 e 7 LUN.

Non importa andare a scandagliare le varie leggi particolari successive alla LUN per verificare se esse volevano modificare i principi in essa contenuti: il sol fatto che le disposizioni particolari non abbiano trovato ingresso nel corpo della L. 1150/1942 sta a significare che il legislatore più moderno non ha inteso modificare i principi cardine della Legge Urbanistica.

Del resto, quando lo ha voluto l’ha fatto con le modifiche apportate dalla L. 765/1967 e più di recente con quelle apportate dall’art. 14, co. 4, del D.L. 133/2014, convertito con modificazioni dalla L. 164/2014, all’art. 28 relativo alle lottizzazioni.

L’effetto Mattarella sull’autorizzazione sismica
Commento a Corte Costituzionale n.272 del 16 dicembre 2016

di Massimo GRISANTI

 

Venerdì nero, il 16 dicembre 2016, per le diaboliche e striscianti regioni italiane rimaste schiacciate da madonna Daria De Pretis.

La Corte costituzionale con sentenza n. 272 depositata il 16/12/2016 (Pres. Grossi – red. de Pretis) ha definitivamente sbarrato la strada alle velleità regionali di sottrazione del controllo preventivo dei progetti, e quindi delle opere, in qualunque zona sismica: non ammettendo differenze per tipo di titolo abilitativo edilizio (Permesso di Costruire o SCIA), per natura di opere (tutte quelle eccedenti la manutenzione ordinaria), per tipo di interventi (sia su strutture dichiaratamente portanti, sia elementi apparentemente non portanti, sia per i meri mutamenti di destinazione d’uso delle costruzioni).

Il Prof. Avv. Daria de Pretis, già docente “Diritto Urbanistico” all’Università di Bologna e rettrice dell’Università di Trento, ha messo nero su bianco queste parole del Giudici costituzionali:

L’art. 94 del TUE, evocato dal Governo a parametro interposto, va qualificato come «principio fondamentale» della materia. La norma prescrive che, nelle località sismiche, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione. Considerata la rilevanza del bene protetto, che coinvolge il valore della tutela dell’incolumità pubblica, la quale non tollera alcuna differenziazione collegata ad ambiti territoriali, la norma riveste una posizione «fondante» del settore dell’ordinamento al quale pertiene (ex plurimis, sentenze n. 282 del 2009, n. 364 del 2006, n. 336 del 2005). (…)”.

Pertanto, non rileva il grado di sismicità (Zona 1, 2, 3 o 4) ai fini della necessaria valutazione preventiva del progetto. La classificazione è irrilevante ai fini della doverosa prestazione, da parte dello Stato ai Cittadini, di quell’idonea garanzia in ordine alla sicurezza delle loro vite e dei beni innanzi ai rischi connessi all’utilizzazione del territorio.

Garanzia che deve essere data unicamente mediante il rilascio della preventiva autorizzazione sismica, senza alcuna differenziazione collegata ad ambiti territoriali (zone, microzone ecc.).

E non rileva neppure il titolo abilitativo edilizio necessario per la realizzazione delle opere:

… Su queste basi, la norma regionale impugnata, escludendo dalla preventiva autorizzazione sismica gli interventi sul patrimonio edilizio soggetti a SCIA, contrasta con il principio fondamentale secondo cui, nelle zone sismiche, l’autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione condiziona l’effettivo inizio di tutti i lavori, nel senso che in mancanza di essa il soggetto interessato non può intraprendere alcuna opera, pur se in possesso del prescritto titolo abilitativo edilizio. (…)”.

Ed ancora:

… Sotto altro profilo, va sottolineato come l’autorizzazione preventiva costituisca uno strumento tecnico idoneo ad assicurare un livello di protezione dell’incolumità pubblica indubbiamente più forte e capillare rispetto al meccanismo del controllo ex post ed eventuale, proprio della SCIA. (…)”.

 – – –

Nel caso in cui le opere siano state iniziate, o comunicate iniziate, senza che l’autorizzazione preventiva del competente ufficio regionale del Genio Civile sia intervenuta, le stesse sono abusive e devono essere perseguite dal responsabile dell’Ufficio tecnico comunale ex art. 27 TUE, in quanto su questi grava il potere-dovere, non incidibile dalle disposizioni ex art. 21-nonies L. 241/1990 (cfr. TAR Veneto, n. 861/2016), di ordinare la demolizione e rimessa in pristino “… in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche …” (un inciso introdotto al testo originario dell’art. 4 della Legge 47/1985 con l’intervento innovativo del legislatore del TUE).

E nelle norme urbanistiche – v. sentenza n. 101/2013 della Corte costituzionale (Pres. Gallo, red. Mattarella), punti 3 e 5 del considerato in diritto, resa in ordine alla sussumibilità delle norme tecniche antisismiche in quelle urbanistiche ai fini dell’applicazione delle disposizioni ex art.36 TUE sul permesso a sanatoria – vi rientrano a pieno titolo quelle inerenti la disciplina antisismica.

Depone per l’inclusione della normativa edilizia nell’urbanistica il chiaro dettato normativo dell’art.4 della Legge 1150/1942 (questa sconosciuta!) ove vi si dice che la disciplina urbanistica è attuata dai piani regolatori e dalle norme di edilizia.

E la Consulta ha pure ribadito quanto, in più occasioni, statuito dalla Corte di Cassazione, sez. penale, circa l’applicabilità delle disposizioni antisismiche ad ogni opera eccedente la manutenzione ordinaria:

… Non coglie, infine, nel segno l’argomento difensivo della Regione Liguria, secondo cui la disposizione impugnata esenterebbe dalla previa autorizzazione sismica le sole opere “minori” e l’autocertificazione del tecnico sul rispetto della disciplina di settore sarebbe sufficiente a presidiare i valori che stanno alla base della normativa sulle costruzioni in zone sismiche, non coglie nel segno.

In un primo senso, va osservato che l’intera normativa riguardante le opere da realizzarsi in zone dichiarate sismiche ha come ambito di applicazione oggettivo non le nuove costruzioni, ma «tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità» (art. 83 del TUE; lo stesso art. 94 si riferisce genericamente all’inizio di «lavori», senza limitazioni). Il legislatore applica cioè un concetto trasversale molto ampio, indifferente e autonomo rispetto ad altre classificazioni valevoli nella disciplina edilizia, e tendenzialmente omnicomprensivo di tutte le vicende in cui si tratti della realizzazione di un’opera edilizia rilevante per la pubblica incolumità (sul punto, Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 12 giugno 2009, n. 3706). Pertanto, la circostanza che l’opera da realizzare consista in interventi sul patrimonio edilizio esistente – alcuni dei quali possono anche presentare rilevante impatto edilizio, come la manutenzione straordinaria, consistente in frazionamenti ed accorpamenti di unità immobiliari, il restauro e il risanamento conservativo, la ristrutturazione edilizia, anche quella comportante la demolizione e ricostruzione di edifici esistenti (interventi tutti rientranti nel campo di applicazione dell’art. 21-bis della legge della Regione Liguria 6 giugno 2008, n. 16, recante «Disciplina dell’attività edilizia») – non mette in dubbio il fatto che possa trattarsi comunque di una costruzione da realizzarsi in zona sismica, come tale ricompresa nell’ambito di applicazione dell’art. 94 del TUE. (…)”.

In questo stato di cose, non vi è chi non veda l’efficace opera di moral suasion del Presidente della Repubblica On. Sergio Mattarella, il quale, ben conscio che la corruzione del potere-dovere di controllo in materia antisismica porta a morte e distruzione, ha, al contempo, più volte visitato i luoghi dell’ultimo disastro e ricordato al neo Governo che gli aiuti alla popolazione terremotata sono una priorità assoluta (e non è da escludere che abbia invitato i suoi ex colleghi a far sentir ancor più forte la loro voce in un particolar settore della P.A. che, se non messo in mano a persone coscienziose, concorre nell’inveramento dei disastri).

In ultimo: chissà se i Procuratori Generali della Repubblica avvertiranno, o meno, la necessità di ricondurre i riottosi Presidenti regionali e dirigenti degli Uffici regionali del Genio Civile all’applicazione della Legge, dimodoché tutte le opere vengano autorizzate preventivamente in tutte le zone sismiche?

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CONSIGLIO COMUNALE
MASSA MARITTIMA – 11.10.2016

DA ALLEGARE AL VERBALE DI QUANTO DI CUI AL PUNTO 3 DELL’ODG
Presa d’atto del perimetro del territorio urbanizzato – LRT 65/2014 art.224 

 

Dapprima alcune considerazioni.

Il Comune di Massa Marittima ha assoldato un Geologo libero professionista – il Dott. Fabrizio Fanciulletti – affidandogli il c.d. Ufficio del Vincolo Idrogeologico.

Già si potrebbero fare delle obiezioni perché, di tale Ufficio, avrebbe potuto interessarsene uno dei tanti dipendenti di cui l’Ente già dispone, senza doverne pagare profumatamente un altro.

Dietro questa cosa, a mio avviso, c’è qualcosa di poco chiaro.

Il Comune sovrabbonda di Architetti, Ingegneri, Geometri, Periti minerari: tuttavia lo affida a ad un Soggetto ESTERNO, contro il quale preciso di non avere assolutamente nulla.

Detto questo, analizzando la documentazione pervenutaci, non ho potuto fare a meno di notare – preliminarmente – una cosa.

L’incarico per la “ricognizione e l’elaborazione della cartografia dei perimetri urbanizzati del territorio comunale” è stato affidato all’esterno, allo Studio Tecnico Associato SALF – giusta Determina n.20 del 29.12.2015 – dal solito arch. Assuntina Messina.

Tutto ciò non è cosa da poco perché quello Studio Professionale fa capo allo stesso Dott. Fabrizio Fanciulletti (già remunerato dal Comune di Massa)…

Mi sono chiesto, dunque, sommessamente: quel lavoro è rientrato tra quelli per i quali il Dott. Fanciulletti è già pagato da noi tutti? La risposta è NO.

A questo si aggiunga che il “vecchio” Ufficio Urbanistica” è stato recentemente diviso in due, creandone uno tutto nuovo (al netto di molte competenze), al cui fianco si erge un altro fantomatico Settore [il sesto, “Edilizia Privata”].

Una curiosità: a Follonica, per 24.000 abitanti, ci sono 5 Settori e 5 Dirigenti mentre a Massa, per 8.000 abitanti (un terzo esatto dei Follonichesi) ci sono 6 Settori e 6 Dirigenti.

Ecco: nonostante ciò e nonostante i molti tecnici – alcuni anche molto validi – già al servizio del nostro Comune, l’arch. Messina (di concerto col Sindaco) ha ritenuto di far uscire altri soldi dalle casse pubbliche…

Ma coloro che “lavorano” in Comune – allora – cosa fanno?

Cosa fanno, se pressoché tutto viene dato all’esterno?

In più, si aggiunga che quanto commissionato allo Studio STALF già esisteva!

Già esisteva, perché la perimetrazione di progetto è ESATTAMENTE LA STESSA già definita con gli Strumenti Urbanistici vigenti (e già profumatamente pagati dalla Collettività roba come oltre 300.000 euro)…

Pertanto, ciò che impone il Capo I del Titolo IX della LRT 65/2014 – nel disposto di cui all’art.224 – circa la transitorietà degli atti di pianificazione del territorio ovvero che, fino al’adozione del nuovo piano e comunque entro tre anni dal’entrata in vigore della stessa Legge, si debba provvedere all’individuazione del perimetro del territorio urbanizzato ove siano consentite c.d. “varianti semplificate” al RU e al PS di cui agli artt.29, 30 e 31 è argomento di estrema importanza e non cosa da prendere – strumentalmente – sottogamba come ha fatto il Comune di Massa Marittima.


MA VI E’ DI PIU’ (cit. l’amico M.G.)…

A differenza della perimetrazione dei centri abitati prevista dalle LLRRTT 5/1995 e 1/2005, quella del c.d. territorio urbanizzato è una dividente netta tra le aree potenzialmente trasformabili ai fini urbanistici (incluse nel perimetro) senza il ricorso alla conferenza regionale di co-pianificazione e tutte le altre, ovvero le aree non trasformabili.

La discrezionalità della famosa “matita dell’urbanista” (che, quando l’edilizia aveva il vento in poppa, faceva – ed ha fatto anche qui a Massa – la fortuna di alcuni e la sfortuna di altri) è stata solo limitata, pur rimanendo ancora viva e vegeta!!!

E ciò mi fa paura – mi terrorizza letteralmente – sia per la mia Regione che, soprattutto, per la mia Cittadina…

L’ambito di lavoro della pericolosa “matita” di cui sopra si è solo modificato, esiste sempre: è unicamente relegato e ”limitato” a quanto descritto entro il famoso perimetro ROSSO…

In linea con i principi generali in materia del c.d. sviluppo sostenibile, inoltre, è da ritenere che le aree urbanizzate degradate diventino la naturale “pista di atterraggio” del novello pianificatore (nei fatti, il Sindaco quale ubbidiente guerriero – senza corazza – della politica di partito, quella che si serve del patrimonio pubblico per ottenere vantaggi e privilegi di parte).

Il Sindaco e la politica di partito potranno fare ancor meglio (ovvero più facilmente) ciò che pare loro poiché NON PIU’ sottoposti alle – talvolta inutilmente stringenti – “pseudo-forche caudine” regionali…

Detto ciò, il Comune di Massa Marittima sta perdendo – per l’ennesima volta – l’ opportunità di indirizzare la pianificazione verso un “vero” sviluppo del territorio, a vantaggio della Collettività intera e non della sola parte di Essa opportunamente tesserata…

Gli sono mancate la capacità e la volontà di approfittare [nel bene] delle indicazioni/imposizioni di una Regione ROSSA che, a mio avviso, molto più spesso di quanto si pensi, vengono impartite pressoché unicamente per fornire lo strumento “giusto” agli Enti Locali ROSSI affinché possano perseguire il proprio squallido tornaconto e, con questo, del sistema ROSSO di cui fanno parte.

Orbene, ritengo che – così come nell’attività edilizia non è consentito procedere ad autorizzare l’esecuzione di ulteriori interventi su manufatti illegittimi (vuoi per assenza di titolo, vuoi perché quello rilasciato non è stato validamente conseguito – anche nell’urbanistica, per analogia, DEBBA – E NON POSSA – essere applicato tale principio!!!

E, per l’effetto, che non possano essere fatte oggetto di previsione urbanistica quelle maglie del tessuto urbanizzato che sono venute ad esistenza in violazione delle norme in tema di lottizzazione dei suoli e di dotazione inderogabile degli standards urbanistici (aree in e per opere di urbanizzazione primaria), suddivisi per qualità e quantità.

Mi viene a mente – una a caso – l’area EX-AGRARIA (che finirà inclusa nel perimetro ROSSO), laddove sono state recuperate volumetrie preesistenti SENZA CHE – PRELIMINARMENTE E OBBLIGATORIAMENTE – ne fosse stata verificata la legittimità urbanistica.

E mi vengono a mente molti altri casi similari, uno tra tutti quello della c.d. “Casa ROSSA” di Ghirlanda circa la quale, prossimamente, il Sindaco sarà chiamato a rispondere…

Ecco, quindi, che – all’indomani dell’operata perimetrazione del territorio urbanizzato – sui competenti organi comunali e sul pianificatore designato incomberà, a mio modesto avviso, l’obbligo di formare un pamplhet di analisi del processo attraverso il quale si sono formate le maglie del tessuto urbano, da convogliare nel quadro conoscitivo dello strumento urbanistico in fieri.

Ciò affinché venga validato il processo di lottizzazione e – nel contempo – scongiurato il pericolo che gli autori (o gli aventi causa) del più grave attentato all’ordinato assetto del territorio siano anche “premiati” anziché essere perseguiti per illeciti che, solitamente, continuano ad avere effetti deleteri sulla genuinità del potere pianificatorio e sulla somministrazione dei servizi ai cittadini (parcheggi pubblici, verde pubblico attrezzato, scuole, centri assistenziali ecc.).

Autori di lottizzazioni abusive che – perfettamente in linea al deprecabile invalso costume nazionale – potrebbero passare avanti alle legittime aspettative di proprietari di suoli nudi ricadenti entro il perimetro del territorio urbanizzato.

In conclusione, ferma restando la validità della proposta di perimetrazione portata all’esame di questa Assemblea [che ricordo perseguire il nobile obbiettivo di stoppare l’uso inconsulto di suolo], consiglio e propongo vivamente – l’integrazione della medesima, nei “semplici” termini sopra espressi.


gabriele galeotti – 11.10.2016

 

bombadi Massimo Grisanti
02.10.2016

 

I vestiti nuovi dell’Imperatore
e la messa in fuorigioco della speculazione edilizia

(breve annotazione a Cass. Penale sez.III 40694/29.09.2016)

 

Con la sentenza 40694 depositata il 29.09.2016, la III° Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione ha denudato l’Imperatore e messo in fuorigioco la massimizzazione dello sfruttamento del suolo ai fini edilizi.

Annullando un’ordinanza del Tribunale del riesame di Salerno e – per l’effetto – facendo tornare in vita il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP di taluni edifici aventi altezza pari a ml 22,00 e distanti tra loro ml 10,60, la Suprema Corte ha affermato che l’edificazione in quel di Pontecagnano (in sostanza in tutta Italia) sta avvenendo ed è avvenuta in violazione dell’art.9, comma terzo, del DM 1444/1968 perché:

in tutte le zone, compreso anche le zone A e le zone C, la distanza tra fabbricati non può mai essere inferiore a ml 10,00 e comunque mai inferiore all’altezza del fabbricato più alto;

il suddetto limite non può essere derogato nemmeno a mezzo dei piani attuativi perché il secondo periodo del terzo ed ultimo comma dell’art.9 DM 1449 DM 1444/1968, riferendosi espressamente ai commi precedenti e non al periodo precedente del medesimo terzo comma, delinea l’ambito applicativo della deroga, rendendo assolutamente inderogabile la distanza tra fabbricati pari all’altezza dell’edificio più alto.

 

La pronuncia di cui sopra conferma quanto sostenuto – illo tempore – sull’autorevole rivista digitale LEXAMBIENTE:

http://www.lexambiente.com/materie/urbanistica/
184-dottrina184/11489-urbanistica-distanze-tra-fabbricati.html

http://www.lexambiente.com/materie/urbanistica/
184-dottrina184/8957-urbanistica-distanze-tra-fabbricati.html

 

Così si è espresso il Collegio (Pres. Fiale, Rel. Andreazza):

… Ciò posto, ed incontestato che, nella specie, si abbia riguardo a costruzioni effettuate in zona D (e dunque ad edifici posti, secondo la dizione dell’art. 9, comma 1, n. 2, “in altre zone” nel senso di zone appunto diverse dalla zona A e dala zona C espressamente richiamate rispettivamente dai nn. 1 e 3 del comma 1), appare coerente con il dato normativo l’assunto del P.M. ricorrente secondo cui la disposizione dell’ultimo comma sopra evidenziata debba applicarsi ANCHE a tali diverse zone: da un lato la formulazione generale di una disposizione posta “a chiusura” dell’articolo e riferita testualmente alle distanze “come sopra computate”, ivi dovendo intendersi dunque (anche in ragione dell’ulteriore espresso richiamo ai “precedenti commi” SIA PURE AL FINE DI CHIARIRE LO SPAZIO DI OPERATIVITA’ DELLA DEROGA prevista per i piani particolareggiati o le lottizzazioni convenzionate) in esse comprese anche le distanze per le “altre zone”, non può lasciare dubbi sulla sua portata omnicomprensiva e, dall’altro, anche sotto il profilo sistematico, non si comprenderebbe perché, come sostenuto dall’ordinanza impugnata, per le parti del territorio destinate a nuovi insediamenti per impianti industriali o ad essi assimilati (tale essendo le zone D come definite dall’art. 2 del d.m. cit.), tale norma di chiusura (che ragguaglia come detto la distanza a quella raggiunta in altezza dal fabbricato più alto) non dovrebbe essere applicabile.

Del resto il censurato dal Tribunale, risultato di omogeneità cui si giungerebbe per effetto della generalizzata applicazione dell’ultimo comma, lungi dall’essere il frutto di una distorsione interpretativa (secondo l’ordinanza impugnata erroneamente propugnata dal consulente del P.M.), sarebbe a ben vedere, in realtà, l’esito della stessa volontà del legislatore che a tale omogeneità ha peraltro derogato laddove, come già visto, ha previsto la possibilità di distanze inferiori a quelle indicate nei commi 1 e 2 nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche.

Né in senso contrario possono condurre le citate, dal Tribunale, sentenze del T.a.r. Lombardia n. 671 e 1429 del 2012 poche che anzi, secondo quanto affermato dal Cons. di Stato nella più recente pronuncia di Sez. 4, n. 2130 del 17/03/2015, l’art. 9 cit. prevede, segnatamente in ipotesi di costruzione di nuovi edifici ricadenti in altre zone, che “la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti corrisponde a 10 metri, con obbligo di aumento della distanza sino all’altezza del fabbricato finitimo più alto, se questo sia maggiore di 10 metri”, restando così confermata la valenza generale del comma 2 dell’art. 9 cit.”.

 

La critica, costruttiva, che mi sento di fare ai Giudici della Cassazione è che la motivazione poteva essere più approfondita.

Infatti, la norma invocata dal P.M. per chiedere l’annullamento dell’ordinanza di dissequestro è chiaramente volta ad affermare la primazia della sicurezza delle costruzioni, della tutela dell’incolumità delle persone e della salute dei cittadini rispetto al disegno urbanistico della città.

Lo Stato ha voluto dire alle Regioni e ai Comuni che la loro potestà legislativa e regolamentare in materia di governo del territorio – esprimenti nei piani attuativi derogatori delle generali limitazioni edilizie – non può spingersi al punto tale da mettere a repentaglio i suddetti valori primari la cui tutela spetta unicamente allo Stato.

In ogni caso, onore al merito dei Giudici della Suprema Corte perché questa sentenza sarà una pietra miliare contro l’abusivismo edilizio e la deregulation nello sfruttamento del territorio, finendo per mettere in fuorigioco anche le iniziative urbanistico-edilizie in corso nei centri densamente abitati e per portare alla luce il fatto che l’imperatore (la Pubblica Amministrazione – gli uffici tecnici comunali – i Sindaci cementificatori) è nudo perché tale violazione dell’art. 9 DM 1444/1968 è insanabile.

Ed inefficaci (perché nulli) sono i permessi di costruire rilasciati in assenza di tale presupposto (vedi art. 12 DPR 380/2001, non a caso rubricato “Presupposti per il rilascio del permesso di costruire”), atteso che il dirigente dell’UTC e il Consiglio comunale si sono sostituiti, del tutto inammissibilmente, al legislatore statale innovando la fonte normativa con un titolo abilitativo e/o con una deliberazione consiliare contrastante con una norma di legge assolutamente inderogabile e perciò esprimente il seguente principio fondamentale della materia del governo del territorio: «Un edificio non può essere più alto della distanza che lo separa dai fabbricati contermini».

di Massimo Grisanti

 

Ai sensi dell’art. 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, approvato con D.Lgs. 42/2004, i cimiteri, le vie, le piazze, le ferrovie sono beni culturali ex lege qualora sono cose appartenenti allo Stato, alle Regioni o agli enti territoriali, la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni.

Il termine “appartenenti” rimanda l’interprete agli artt. 822 e ss. del codice civile.

Atteso che per l’utilità dei cimiteri, delle vie e delle piazze, delle ferrovie – o per il perseguimento di fini di pubblico interesse ad essi inerenti – l’art. 825 c.c. assoggetta al regime del demanio pubblico anche i beni appartenenti ad altri soggetti, può affermarsi che per effetto dell’interesse culturale ex lege dei primi i secondi sono gravati dal vincolo di tutela indiretta. 

Sono del fermo avviso che la risposta non possa che essere affermativa poiché la norma deve necessariamente avere una vis espansiva per ottenersi una piena tutela.

L’art. 130 del Codice dispone che in attesa del nuovo regolamento di esecuzione della Parte I continua ad applicarsi quello approvato con RD 363/1913.

Ebbene, ai sensi degli articoli 77 e 80 RD 363/1913 i piani regolatori e i regolamenti edilizi devono contenere vincoli di tutela indiretta dei beni culturali.

Dal momento che i terreni adiacenti ai cimiteri, alle vie e alle piazze, alle ferrovie sono gravati ope legis da servitù a favore dei beni appartenenti allo Stato, alle Regioni, agli enti territoriali o agli istituti religiosi – e tali vincoli non possono essere incisi dagli strumenti urbanistici, dovendo, al più, limitarsi a riportarli – essi sono automaticamente gravati anche dal vincolo culturale di tutela indiretta. Ne consegue che le opere realizzabili su di essi devono essere autorizzate ex art. 21 D.Lgs. 42/2004, per impedire che le nuove opere danneggino la prospettiva o la luce richiesta dai monumenti (art. 80 RD 363/1913).

Né le disposizioni relative alla tutela indiretta contenute nell’art. 45 D.Lgs. 42/2004 sono dirimenti per escludere altre forme di tutela indiretta. Sia perché il legislatore non ha previsto che esse siano le sole, sia perché l’art. 45 si riferisce a provvedimenti amministrativi (soprintendentizi) la cui adozione è già prevista dall’art. 80, comma secondo, RD 363/1913 nel caso in cui i vincoli degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi si dimostrino insufficienti ad assicurare la piena tutela dei beni culturali.

In sintesi, nel sistema delineato dal D.Lgs. 42/2004 e dal relativo regolamento di esecuzione i provvedimenti soprintendentizi ex art. 45 D.Lgs. 42/2004 costituiscono l’ultimo strumento di tutela indiretta, atteso che dal combinato disposto degli articoli 45 e 130 D.Lgs. 42/2004 e dell’art. 80 RD 363/1913 emerge la preferenza del legislatore per l’allocazione dei vincoli di tutela indiretta negli strumenti urbanistici.

Del resto, così come i beni paesaggistici possono essere individuati ex lege oppure con provvedimenti ministeriali ovvero con i piani paesaggistici, perché le disposizioni di tutela indiretta dei beni culturali non potrebbero essere rese con il rinvio dinamico ad altre disposizioni di legge che li disciplinano?

Ed ancora.

I fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua iscritti negli elenchi delle acque pubbliche, i laghi sono beni culturali? Quante civiltà si sono sviluppate lungo le acque? Roma ne è un esempio. Per non dire la storia che li permea.

Le fasce di rispetto ex art. 142 D.Lgs. 42/2004 sono quei beni appartenenti ad altri soggetti che ex art. 825 c.c. sono gravati da diritti demaniali secondo la disciplina da contenersi nei piani paesaggistici?

Nel caso in cui le acque pubbliche, ed i loro necessari contenitori, sono beni culturali, come può affermarsi che l’autorizzazione paesaggistica per realizzare opere nelle relative fasce di rispetto possa essere adottata dalla Regione in assenza del parere vincolante del soprintendente?

 

 

 

di Massimo GRISANTI

 

 

E’ pacifico, nella dottrina e nella giurisprudenza dei supremi consessi amministrativo (ex multis: Cons. Stato, n.3072/2013) e penale (ex multis: Cass. penale, n.38005/2013), che il mutamento di destinazione d’uso dei locali è dato dalle condizioni di fatto in cui il bene si trova al momento dell’accertamento, tenuto conto degli impianti e delle finiture.

 

La Suprema Corte di Cassazione, sez. III penale, con sentenza n. 9607/2014 ha anche stabilito che è falso l’assunto che <… mancando l’altezza minima prevista dalle norme igienico-sanitarie per rendere il sottotetto abitabile, questo non potrebbe comunque considerarsi abitabile e non sarebbe dunque dotato di destinazione residenziale. (…) ciò che conta non è infatti che l’altezza realizzata sia inferiore a quella minima prevista per i locali abitabili, ma che il sottotetto sia stato realizzato per essere destinato in concreto a fini abitativi, pur essendo privo dell’altezza regolamentare. E tale illegittima destinazione emerge sia dalla circostanza che lo stesso sottotetto è stato posto in commercio come abitativo …>.
Le stesse considerazioni valgono per i locali del piano seminterrato che pur non possedendo i requisiti igienico-sanitari di quelli di abitazione (altezza, rapporto aero-illuminante, assenza dei prescritti sistemi di isolamento dall’umidità …) vengono comunque così utilizzati.

 

Pertanto, sul dirigente dell’UTC, grava l’obbligo di effettuare, o disporre, un sopralluogo finalizzato ad accertare se vi è stato effettivamente un mutamento nella destinazione d’uso di locali accessori (cantina, magazzino, autorimezza, ripostigli ecc.) verso ambienti di abitazione principale (camera, cucina, soggiorno ecc.).

 

In caso di abusivo mutamento, deve essere disposta l’immediata rimozione di tutti gli elementi caratterizzanti la nuova destinazione.

 

Infine, si intende far rilevare al Comandante della Polizia Municipale, agli agenti e agli ufficiali di Polizia Municipale nonché al dirigente dell’UTC, al Segretario comunale e al Sindaco (tutti pubblici ufficiali), che l’aggravio del carico urbanistico rispetto al progetto regolarmente autorizzato IMPONE, anche in caso di opere ultimate da oltre un decennio (cfr. Cass. penale, sez. III, n. 41541/2009) il sequestro preventivo (e finanche il sequestro amministrativo ex art. 27 TUE) poiché la finalità è quella di evitare il perpetuarsi dell’offesa al territorio costituita dall’illecito uso (in quanto sanzionato ex art. 18 REC ed art. 44, c. 1, lett. a  TUE) di un bene non in regola con la disciplina urbanistica.

 

 


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