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Il 23 agosto 1339, con duecentododici voti favorevoli e centotrentadue contrari, il “Gran Consiglio Generale della Campana” deliberava l’ampliamento del Duomo di Siena (AS-Siena, Consiglio Generale 125, cc. 18r-19r), la cui parziale edificazione si protrasse fino al 1357.
Tuttavia, si andava decretando un lavoro già iniziato: la posa della prima pietra della facciata del “Duomo nuovo” (come narra il cronista Andrea Dei), infatti, risale al 2 febbraio del 1339.
La cerimonia con la benedizione della fabbrica fu retta da Donusdeo Malavolti [o Malevotti, pare già Presule massetano nel 1302], allora Vescovo di Siena, e Galgano Pagliaresi, Vescovo di Massa, con la presenza di tutto il clero.
La chiesa esistente sarebbe divenuta il transetto della nuova Cattedrale, le cui navate avrebbero dovuto svilupparsi nell’attuale piazza Jacopo della Quercia, anticamente dei Manetti: “per planum Sancte Marie versus plateam Manettorum”.
Sono due i disegni – in pianta – dell’ingrandimento del duomo che si conservano nell’Archivio dell’Opera della Metropolitana (inv. n.1736 e n.1740). In entrambi si propone di mantenere la chiesa esistente, di modificare la cupola e di creare un corpo anteriore a tre navate e sei campate e una nuova abside (nell’uno semiottagonale e nell’altro poligonale) oltre la cupola e la demolizione del campanile.
I disegni, inoltre, sono “di grande interesse anche per il tipo di edificio che si voleva realizzare: si trattava di una cattedrale gotica di forme oltremontane, con coro a deambulatorio, come sono quelle di Chartres, Colonia, Praga, Bruxelles, ecc.. Una tipologia di pianta ben poco impiegata in Italia (un esempio è San Francesco di Bologna)” – cit. Lando Bortolotti.
Invero, fin dal 1° maggio 1317, si erano iniziati i lavori del prolungamento verso est (Vallepiatta) e si era dato inizio all’edificazione della facciata del Battistero. Dal 1331, inoltre, si andarono ad acquistare continuamente gli edifici nella piana prospiciente lo Spedale di Santa Maria della Scala e la Postierla, al fine di demolirli per fare spazio alla nuova immensa costruzione.
La direzione dei lavori di ampliamento fu affidata a Lando di Pietro (dicembre 1339), orafo di eccezionale versatilità, distintosi in opere di ingegneria, nel bilicare campane, nella costruzione del battifolle di Montemassi (1328) e delle mura di Paganico (1334). Fu richiamato da Napoli ove si trovava al servizio di re Roberto d’Angiò, ma sopravvisse al cantiere senese soltanto fino al 3 agosto 1340, data della sua morte.
Gli subentrò lo scultore senese – assai raffinato – Giovanni d’Agostino (con atto di conduzione fatto dall’Operaio Latino de’ Rossi risalente al 23 marzo 1340), che portò celermente avanti la fabbrica del “Duomo nuovo” [destinato a divenire il capolavoro dell’arte gotica senese], fino al 1348, probabile anno di morte dell’artista per l’epidemia. Mentre Lando di Pietro fu una sorta di “soprintendente” dei lavori, pagato anche dal Comune di Siena, Giovanni d’Agostino fu assunto con la carica di capomaestro dell’Opera.
Dopo il 1348, l’edificazione subì un forte rallentamento fino alla sospensione definitiva, sia per la recessione economica provocata dalla peste nera che decimò la popolazione sia per i problemi statici verificatisi in alcune parti già edificate.
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Il 6 aprile del 1520, venerdì Santo, alle tre di notte, moriva Raffaello Sanzio, dopo giorni di malattia iniziati con una febbre continua ed acuta, causata probabilmente da eccessi amorosi. Da oggi quindi siamo nel pieno delle “raffaelliadi” per i 500 anni dalla morte di questa leggendaria personalità artistica. D’altronde le celebrazioni dei centenari servono a ricordare e ad approfondire la conoscenza di chi ha lasciato un segno di cui, ancora oggi fortunatamente, riusciamo ad assaporarne le conseguenze.
La morte dell’artista è ricordata da tutti i contemporanei che ne hanno scritto, come una tragedia senza precedenti, tramandandoci la visione comune di un Raffaello considerato divino tanto da essere paragonato, già in vita, a un nuovo Cristo.
Come lui, era morto di venerdì Santo ed in più, la data della sua dipartita coincideva con la sua nascita avvenuta 37 anni prima, il 6 aprile del 1483. Da Marcantonio Michiel, ad Antonio Marsilio, a Pandolfo Pico della Mirandola, a Pietro Paolo Lomazzo tutti ebbero parole piene di cordoglio per la perdita dell’artista. Tra questi, Giorgio Vasari, che della morte di Raffaello scrisse: “…era persona molto amorosa affezionata alle donne e ai diletti carnali…Faceva una vita sessuale molto disordinata e fuori modo…dopo aver disordinato più del solito tornò a casa con la febbre…”.
Quello che mi incuriosisce è questo connubio tra il “divin pittore” e gli eccessi amorosi. Certamente la sua carriera artistica dimostra l’innata capacità nell’esprimere il suo modo di fare arte, da cui scaturisce certamente, l’appellativo “divino”.
Sin dagli esordi nella raffinata corte di Urbino, Raffaello dimostra come sia superiore al suo maestro Perugino. E a soli 17 anni e già maestro d’arte e realizza lo spettacolare Sposalizio della Vergine oggi alla pinacoteca di Brera. Il suo capolavoro giovanile arriva solo tre anni dopo, quando per la vedova Baglioni dipinge La Deposizione, oggi alla Galleria Borghese. Qui vi arrivò quasi un secolo dopo per volere del cardinale Scipione Borghese, che la fece portare via segretamente dalla chiesa di San Francesco al Prato, a Perugia, dove fra l’altro già si trovava da qualche anno la Pala degli Oddi, sempre di mano del pittore urbinate.
La svolta della sua carriera artistica arriva quando viene chiamato da Papa Giulio II, il quale aveva intenzione di rinnovare la città di Roma grazie al contributo di artisti e architetti come Bramante e Michelangelo. Siamo nel 1509. Il primo incarico di Raffaello a Roma è la decorazione degli appartamenti vaticani insieme ad una serie di commissioni interminabili da parte sia del Papa che di personaggi legati alla sua corte.
Segue poi la nomina a Prefetto alle antichità romane, ovvero, a soprintendente di Roma e inizia, primo nella storia, ad occuparsi della protezione e conservazione delle opere e dei monumenti antichi nella capitale, ponendo le fondamenta di quei principi che sono oggi alla base della valorizzazione e della tutela del nostro patrimonio culturale. Oberato di lavoro, organizza la sua bottega, e, anche in questo, è il primo imprenditore di un’impresa culturale, in senso moderno, riuscendo ad impostare il suo lavoro in team con scultori, architetti e artigiani di ogni tipo, in modo da soddisfare qualsiasi richiesta e di produrre un numero indefinito di opere.
Un personaggio così non poteva che attirare notevoli invidie. Appare ancor più dubbia, allora, la sua morte improvvisa per “eccessi amorosi”, nel fiore degli anni e della produzione artistica. Tra l’altro pochi mesi prima della sua scomparsa Raffaello ritrae una ragazza nuda, che cerca di coprirsi il seno con un velo trasparente, a tutti nota come laFornarina da sempre ritenuta la sua musa ispiratrice. Margherita Luti, figlia di un senese di professione fornaio, ha suggestionato l’immaginario collettivo che la ritenne per molto tempo l’unico amore del pittore e che, tra l’altro, alla morte dell’amato si ritirò in un convento.
Le cause dunque della morte improvvisa, anche dalle cronache del tempo, non risultano affatto chiare. In questi giorni di letture mi sono divertita a trovare qualche supposizione diversa. In quel periodo il clima a Roma era estremamente competitivo e spesso non esistevano mezze vie per raggiungere i propri obiettivi. Baldassarre Peruzzi, ad esempio, architetto della basilica di San Pietro, morì avvelenato (1536), secondo quanto ci riporta il Vasari. Chi poteva, dunque, essere ostacolato nella sua carriera da Raffaello? A Roma era giunto da Venezia, il pittore Sebastiano del Piombo, al seguito del ricchissimo banchiere senese Agostino Chigi.
Questi si era fatto costruire una sontuosa villa proprio dall’architetto Baldassarre Peruzzi. La decorazione pittorica della villa, detta in seguito “della Farnesina”, venne affidata ai migliori artisti del tempo tra cui Raffaello e Sebastiano del Piombo. I due furono messi in competizione nella sala di Galatea al pianterreno. Siamo intorno al 1512. Quattro anni dopo il cardinale Giulio dè Medici (futuro Clemente VII) commissionò due pale d’altare agli stessi artisti: a Raffaello la Trasfigurazione (oggi ai Musei Vaticani) e a Sebastiano la Resurrezione di Lazzaro (oggi alla National Gallery di Londra).
Nei documenti esiste una fitta corrispondenza tra Michelangelo e il suo amico Leonardo Sellaio, su questa storia da cui se ne deduce che fu una competizione particolarmente viva e che durò anche diversi anni. Tanto che, mentre Sebastiano del Piombo espose la sua pala, per la prima volta, nel 1519, Raffaello non riuscì a terminarla. Vasari ci racconta: “gli misero alla morte, nella sala ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinal de medici: la quale opera, nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l’anima di dolore a ognuno che quivi guardava”. Nel 1722 il corpo di Raffaello, sepolto su sua stessa volontà nel Pantheon, venne riesumato quasi intatto. Se fosse stato avvelenato con l’arsenico questo avrebbe potuto preservarlo dal decadimento. Ma sono solo supposizioni.
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CHIUNQUE AVESSE LA NOSTRA RICCHEZZA ARTISTICA
SAPREBBE VALORIZZARLA MEGLIO DI NOI
Ne è un esempio il prezioso dipinto tardomedievale
presso la Fonte dell’Abbondanza
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Nel 1999, presso la Fonte dell’Abbondanza in Massa Marittima, è stata rinvenuta una preziosa testimonianza pittorica risalente alla metà del Tredicesimo secolo.
Il Murale, comunemente detto “Albero della Fecondità”, è stato oggetto di approfonditi studi e sembra assurgere al ruolo di “unicum” nel pur vasto panorama artistico medioevale italiano.
Il Comune di Massa Marittima, di concerto con la Soprintendenza di Siena, ma in forme alquanto discutibili, ne ha promosso il restauro e dal 6 Agosto 2011, dopo lunghi anni, è tornato pubblicamente visibile.
Ma, poco dopo la fine del più recente intervento conservativo, esaminate doverosamente le risultanze di esso, giunsi alla conclusione che le operazioni di restauro non erano state condotte nella maniera più opportuna.
Numerose porzioni del Murale, infatti, erano state ridipinte arbitrariamente, senza alcun rispetto dei caratteri artistici originali dell’Opera.
Ai miei occhi, l’autenticità del Murale risultava FORTEMENTE PREGIUDICATA da una campagna di restauro (parlo dell’aspetto integrativo) affrettata e irrispettosa.
Diligentemente, dunque, intesi rappresentare le mie perplessità al Ministero competente.
La Soprintendenza, però, mesi dopo, ebbe a comunicarmi di aver effettuato i doverosi controlli sulle modalità di esecuzione dell’intervento e di avere anche promosso un sopralluogo da parte dell’Istituto Centrale di Restauro di Roma (dicesi eseguito il 15.02.2012).
Manco a dirlo, tutto risultava a posto: le operazioni erano state condotte correttamente, lo stato del Murale era buono e nulla ne aveva recato pregiudizio.
La questione fu liquidata con un laconico «Le operazioni di restauro eseguite sull’Albero della Fecondità risultano sostanzialmente corrette».
Peccato che tali controlli furono fatti SENZA MINIMAMENTE DARMENE CENNO così come SENZA AVERMI CHIESTO, preliminarmente, i doverosi chiarimenti nel merito delle mie rimostranze.
E, più che tutto, nonostante le reiterate richieste, SENZA PERMETTERMI DI ESPORRE LA MIA POSIZIONE E SENZA NEMMENO AVER ACQUISITO IL MATERIALE FOTOGRAFICO SU CUI SI FONDAVANO LE MIE RAGIONI (che mi richiesero solo successivamente all’essersi espressi).
Ciò proprio quando [anche attraverso spot televisivi] si sbandierava la tanto decantata necessità che i Cittadini collaborassero con le Istituzioni.
Bene, io ho cercato di farlo ma NON ho avuto riscontro, se non risposte letteralmente umilianti, tese unicamente a travisare la realtà dei fatti e a negare l’evidenza.
Evidentemente, le Istituzioni accettano solo la collaborazione che ne esalta le gesta e rifuggono quella che mette in evidenza eventuali errori commessi.
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L’Arca di San Cerbone fu commissionata da tal Peruccio – membro dell’Opera della Cattedrale di Massa Marittima (lo stesso che nel 1316 si era fatto carico di giungere al compimento della Maestà di Duccio di Buoninsegna destinata all’Altare Maggiore) – e fu terminata nel 1324, come informa l’iscrizione in lettere capitali che corre al di sotto dei rilievi figurati.
ANNO D(OMI)NI MCCCXXIIII I(N)DI(C)T(IONE) VII MAGIST(ER)
PERUCI(US) OP(ER)ARI(US) EC(C)L(ESIA)E
FECIT FI(ERI) H(OC) OPUS MAG(IST)RO GORO GREGORII DE SENIS.
Trattasi di un VERO E PROPRIO CAPOLAVORO della scultura gotica senese, come pochi altri – del genere – sono giunti a noi.
Come attestano il verbale del 4 giugno 1600 circa la ricomposizione delle reliquie di san Cerbone nel monumento marmoreo (dopo il loro rinvenimento il 26 giugno 1599) e una “relatione” in volgare relativa al medesimo evento, l’Arca fu collocata sotto la mensa dell’Altare Maggiore negli ultimi anni del Cinquecento.
In seguito, fu inglobata nel nuovo altare costruito tra il 1623 e il 1626 da Flaminio Del Turco; in origine, però, probabilmente, doveva essere sorretta da colonnine marmoree (forse tra quelle reimpiegate da Del Turco come sostegno della mensa eucaristica).
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Angiolo (o Agnolo) di Ventura è stato un importante architetto e scultore senese, attivo in Toscana nella prima metà del Trecento.
Si hanno sue notizie solo a partire dal 1311 e la sua morte sarebbe avvenuta successivamente al 1349.
Il Vasari lo cita nelle “Vite” – insieme ad Agostino di Giovanni – nella biografia dal titolo: “Agnolo e Agostino”.
Dai pochi documenti che lo menzionano, risulta che nel 1329 riscosse un pagamento per alcuni lavori compiuti nel Campo di Siena [“in pede porte Salarie”].
Insieme al collega Agostino di Giovanni, nel 1325, infatti, aveva disegnato la torre del Palazzo Pubblico, meglio nota come Torre del Mangia.
Nel 1333, invece, assieme ad altri undici maestri, fece parte dello “staff tecnico” a cui fu richiesto un rapporto sui lavori di ampliamento del Duomo verso Vallepiatta.
Fu anche architetto militare, attività svolta [forse] anche a Siena con i progetti per la Porta di Sant’Agata (1325) e la Porta Nuova, oggi Porta Romana (1327).
Nel 1334, con Guido di Pace e Meo di Rinaldo, si occupò dell’edificazione del Cassero di Grosseto.
Due anni dopo, nel 1336, insieme a Domenico di Giovanni, Romeo Pepi e Giovanni Alberti, partecipò alla costruzione della fortezza di Massa Marittima: quest’ultima notizia è del 31 gennaio 1349, allorché egli figurò in Siena come testimone in un atto di vendita.
In particolare, Angiolo di Ventura – ovvero, semplicemente, l’Agnolo – sarebbe l’architetto al quale si deve il progetto del maestoso Arco [con una corda di 21,70 metri ed una freccia di 7 metri] col quale si intese collegare la Torre del Candeliere alle Mura Senesi.
È probabile che egli, pur ricordato principalmente come architetto, possa identificarsi anche con quell’Angelo da Siena che, nel 1330, insieme ad Agostino di Giovanni, scolpì il monumento Tarlati ad Arezzo; tale identificazione, proposta da Milanesi (1854) sulla scorta di Vasari (che, peraltro, attribuisce a Giotto il disegno del monumento), è accettata da pressoché tutta la maggiore critica.
Il cenotafio del Vescovo e Signore di Arezzo, Guido Tarlati (+1327), situato nel duomo e completato nel 1330 [Hoc opus fecit magister Augustinus et magister Angelus de Senis MCCCXXX], resta l’unica sua opera firmata e datata.
Tra le sculture assegnate al Maestro senese, soltanto le sette formelle dei due altari dei Santi Ottaviano e Regolo (1320 ca.), già nel duomo di Volterra (oggi nel Museo Diocesano di Arte Sacra), trovano concorde la critica.
Delle altre attribuzioni (Vasari, Le Vite – Venturi, 1904 – Valentiner, 1925), molte oggi rifiutate, sono da menzionare – restando dubbie le ipotesi attributive – il sepolcro del Vescovo Ranieri degli Ubertini (+1301) in San Domenico ad Arezzo (Valentiner, 1927) e le statuette di apostoli e profeti nel duomo di Massa Marittima (Carli, 1946), queste ultime avvicinate spesso e più ragionevolmente all’arte di Goro di Gregorio.
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Nel 2017 ricorrevano i 700 anni dalla coniazione delle monete battute dal Libero Comune di Massa di Maremma: il Denaro Piccolo (o Pìcciolo) e il Grosso da 20 denari.
La Zecca fu operativa solamente per poco più di due anni, dal 1317 al 1319, e aveva sede nella palazzina – allora di proprietà pubblica, poi appartenuta alla famiglia dei Conti Alberti di Monterotondo – che si apre sull’attuale Via Norma Parenti e che oggi, in parte, ospita la Sede della Società dei Terzieri.
Con la dominazione Senese su Massa [dal 1336], l’edificio divenne proprietà dei Conti di Sassetta (un ramo dell’importante famiglia Gherardesca) che ne fecero una propria prestigiosa residenza privata.
Questi ultimi, nel 1401, dovettero cedere alle pressioni della Curia che volle acquistare il fabbricato per ampliare il Palazzo Vescovile, trasferito forzosamente nell’adiacente Palazzina dei Conti di Biserno [che si affaccia sulla Piazza del Duomo] dopo che i Senesi ebbero preso possesso del Castello di Monteregio.
Una curiosità che mi fa impazzire… (!!!)
Ma dovevano trascorrere ancora 100 anni esatti [100 anni esatti…] prima che qualcuno si ponesse seriamente il problema di “voltare” la Cupola di Santa Maria del Fiore [iniziata nel 1294-1295 sulle vestigia di Santa Reparata], pur già eretta fino al tamburo ottagonale che avrebbe dovuto sostenerla…
Solo nel 1418, infatti, l’Opera del Duomo bandì il concorso pubblico per la sua costruzione a seguito del quale, pur senza vincitori “ufficiali”, si giunse ad affidarne l’incarico a Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti.
E’ certo che Arnolfo di Cambio – architetto progettista del Duomo – avesse previsto di caratterizzare il suo edificio con una struttura assai diversa e più ampia del tradizionale tiburio delle Cattedrali dell’epoca: tuttavia, la Cupola avrebbe dovuto avere un aspetto ben più convenzionale di quello conferitole dal Brunelleschi.
La costruzione della Cupola ebbe inizio il 7 agosto 1420 e la struttura – alla base della lanterna – fu completata il 1º agosto 1436.
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Ambrogio Lorenzetti, fratello di Pietro, nasce a Siena nel 1285 (circa).
Dai tratti fondamentali della sua pittura, si ritiene che abbia attinto principalmente dall’arte di Duccio di Buoninsegna e di Giotto [piuttosto che da quella del fratello e di Simone Martini].
La sua prima opera firmata, datata 1319, è “La Madonna col Bambino” nella chiesa di Sant’Angelo di Vico l’Abate presso San Casciano Val di Pesa.
Tra il 1330 e il 1333, visita Firenze e vi soggiorna più volte per avvicinarsi all’opera dell’architetto e scultore Arnolfo di Cambio (di quest’ultimo è il progetto di Santa Maria del Fiore); qui dipinge il Trittico per la Chiesa di San Procolo [oggi agli Uffizi].
Alcuni studiosi gli attribuiscono un ruolo di grande importanza nella complessa gestione dei rapporti culturali tra Siena e Firenze della prima metà del secolo.
Nel 1335, rientra stabilmente a Siena e realizza – col fratello – alcuni affreschi (andati persi) presso l’Ospedale di Santa Maria della Scala.
E’ dello stesso anno la “Maestà” dipinta per la Chiesa agostiniana di San Pietro all’Orto di Massa Marittima.
Immediatamente dopo, nel 1336, lavora nella cappella dell’Eremo di Montesiepi presso l’Abbazia di San Galgano.
Tra il 1337 e il 1338, dipinge nel Convento di Sant’Agostino di Siena: gli affreschi, staccati dalla Sala Capitolare, sono oggi custoditi nelle Cappelle Bandini Piccolomini e Piccolomini di Castiglia della Basilica di San Francesco.
Tra il 1338 e il 1339 (forse il 1340) – nella fantastica cornice della Sala dei Nove nel Palazzo Pubblico di Siena (contigua a quella del Mappamondo) – realizza quello che è considerato il suo capolavoro: le “Allegorie del Buono e del Cattivo Governo”.
Del 1342 é la “Presentazione al Tempio” per l’altare di San Crescenzio nella Cattedrale di Siena [oggi agli Uffizi]; del 1343, invece, sono i dipinti di facciata e la tavola d’altare di San Pietro in Castelvecchio.
Al 1344 risalgono “La Cosmografia” del Palazzo Pubblico di Siena e “L’Annunciazione” destinata all’Ufficio della Gabella della medesima città [oggi alla Pinacoteca Nazionale di Siena].
In esso, a grandi lettere, si legge la frase latina “Ambrosius Laurentii de Senis hic pinxit utrinque” (Ambrogio di Lorenzo da Siena qui dipinse da ambo i lati).
Altre, ma non troppe, sono le sue opere minori (alcune anche nell’amiatino).
Ambrogio Lorenzetti muore a Siena – di peste – nel 1348, proprio come il fratello Pietro.
Il Museo dell’Opera Metropolitana di Siena è qualcosa di meraviglioso!
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di gabriele galeotti
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Fino al 1462, la Pienza che tutti conoscono come “Perla” del Rinascimento toscano altro non era che un piccolo borgo: Corsignano.
Qui, il 18 Ottobre 1405, era nato Enea Silvio Piccolomini che, 53 anni dopo, succedendo a Callisto III, divenne Papa Pio II.
Era stato ordinato Sacerdote il 4 Marzo 1447, nominato Vescovo il successivo 19 Aprile e vestito dello zucchetto purpureo di Cardinale il 17 Dicembre 1456 (dallo stesso Papa cui sarebbe succeduto).
Ma fu un evento particolare a regalarci la Pienza di fronte alla quale – oggi – ci commoviamo per la sua straordinaria bellezza.
In occasione di un suo viaggio verso Mantova, infatti, il Pontefice volle rivedere la sua Cittadina natale e i luoghi che lo avevano visto crescere.
Il degrado che si trovò di fronte agli occhi e la miseria cui era relegata la sua terra lo portarono a decidere di “fondare” una nuova città.
Una NUOVA CITTA’ che sormontasse e oscurasse l’antico borgo originario: una NUOVA CITTA’ IDEALE, da disegnare secondo i canoni artistici del Rinascimento e facendo tesoro del sopraggiunto progresso socio-economico.
Approfittando del suo ruolo e mettendo a disposizione molte risorse della Chiesa, in men che non si dica affidò il progetto urbanistico/edilizio all’architetto e scultore fiorentino Bernardo di Matteo Gamberelli, detto il Rossellino [Settignano, 1409 – Firenze, 1464].
L’intervento, un impareggiabile miscuglio di edilizia e urbanistica, durò circa quattro anni e portò alla nascita di una Cittadina armoniosa, in forme tipicamente quattrocentesche.
Papa Pio II è stato il CCX° Pontefice della Chiesa Cattolica, dal 1458 alla sua morte avvenuta ad Ancona il 14 Agosto 1464.
La morte prematura di papa Pio II pose fine alla fantastica storia della sua CITTA’ IDEALE che però, da allora, fortunatamente, ha subito ben poche modifiche.
Le spoglie di Enea Silvio Piccolomini riposano a Roma, nella Basilica di Sant’Andrea della Valle, nel rione di Sant’Eustachio.
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