Appropriazione e distrazione: il delitto di peculato nei reati contro la P.A.
di Fabio Ranieri
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Fra le modifiche di carattere sostanziale apportate dalla L.26/04/1990 n.86, particolare importanza assume l’abolizione della distrazione come condotta incriminata del reato in esame, abolizione che ha suscitato non pochi dubbi interpretativi sia per la dottrina che per la giurisprudenza.
Innanzi tutto occorre dire che la ratio ditale scelta del legislatore si fonda sulla premessa che il concetto di distrazione, già nel vecchio dettato dell’art.314, non era stato ben delineato e specificato, suscitava così diverse soluzioni interpretative. Vi era, infatti, chi riteneva sufficiente ai fini della configurabilità del peculato per distrazione, che il bene oggetto materiale del delitto fosse (distratto) utilizzato per il perseguimento di uno scopo diverso da quello cui era destinato, pur se la nuova destinazione gravitasse nell’orbita dell’interesse pubblico; e chi invece riteneva penalmente perseguibile solo la distrazione che avesse determinato la destinazione del bene verso uno scopo difforme da qualsiasi pubblica utilità, imponendo una destinazione esclusivamente privata identificantesi nel profitto dell’agente o di terzi. Di fronte a tali divergenti interpretazioni, il legislatore ben avrebbe potuto, nel riformare l’art. 314, restringere l’ipotesi di peculato per distrazione alle sole distrazioni a profitto privato, ottenendo così di delimitare in maniera specifica l’ambito della distrazione punibile come peculato. Ma, al fine di porre un freno alle distorsioni interpretative e, soprattutto, per evitare di sanzionare casi di gestione della res publica in maniera difforme da modelli ideali di buona amministrazione, pur in assenza di un arricchimento privato, il legislatore della riforma ha optato per una soluzione radicale e, cioè, la cancellazione dal reato di peculato della condotta distrattiva.
L’eliminazione della distrazione non ha ovviamente sancito l’irrilevanza penale ditale condotta: piuttosto il legislatore del ‘90, ampliando la fattispecie dell’abuso d’ufficio (art.323), ritenne che la distrazione continuava ad assumere rilievo penale solo se integrava gli estremi di cui all’art.323 c.p. . In tal senso si espresse pure la giurisprudenza, affermando che il legislatore nel sostituire l’art.323 c.p., ha adottato una formulazione idonea a far recepire in tale nuovo testo le precedenti ipotesi di interesse privato, abuso innominato e peculato per distrazione. Ne consegue da ciò che tra peculato per distrazione e il nuovo testo dell’art.323 c.p., esiste un fenomeno di continuità o meglio una successione di norme incriminatrici che impone l’individuazione della norma più favorevole da applicare ai sensi dell’art. 2 Il comma c.p.. La Cassazione (Cassazione Penale sez. VI, 16/05/199 1, in Cass. pen., 1992, 3024) infatti, ha ritenuto che il II comma dell’art.323 c.p. prevede una pena più favorevole di quella contenuta nel previgente art. 314 c.p.
Pur tuttavia, non tutta la dottrina è stata concorde nell’assegnare al reato di abuso d’ufficio anche l’incriminazione della condotta distrattiva, anzi, a dir del vero, subito dopo la riforma del ‘90 sorsero due inquietanti interrogativi.
Un’appropriazione non può essere commessa anche mediante una distrazione? E soprattutto, la soppressione della distrazione comporta l’automatica esclusione delle condotte un tempo riconducibili nella fattispecie del peculato per distrazione dall’ambito dell’attuale art. 314 c.p., oppure, in alcuni casi, nonostante la modifica anche la distrazione deve considerarsi peculato?
Da questi interrogativi risulta evidente che la cancellazione della distrazione dall’art. 314 c.p., fatta recepire nell’art. 323 c.p., anche esso novellato dalla L. 86/’90, non ha assolutamente risolto il problema del peculato per distrazione.
In dottrina si erano infatti delineati diversi orientamenti: alcuni autori, conformi all’intenzione subiettiva del legislatore, consideravano che il peculato per distrazione rientrava nella nuova fattispecie del reato di abuso d’ufficio; altri autori consideravano che tutto ( relativamente al peculato) era rimasto immutato dopo la riforma, essendo punibile come peculato anche la condotta distrattiva: per questi autori infatti la distrazione era una particolare forma di appropriazione, poiché colui che da alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso, dispone di fatto della cosa uti dominus.
Infine, un altro orientamento, ha considerato il peculato per distrazione a profitto proprio, rientrante nell’area incriminatrice di cui all’art.314 c.p. e quindi assoggettata alla relativa sanzione, mentre ha considerato il peculato per distrazione a profitto pubblico rientrante nell’ambito della disciplina dell’art. 323. In tal modo si realizzava lo scopo del legislatore del ‘90 e cioè evitare di applicare la pena più grave prevista per il peculato al pubblico ufficiale che abbia distratto il bene, ma pur sempre per una destinazione rispondente all’interesse pubblico. La stessa giurisprudenza ( Cassazione Penale sez. VI 25702/1992, in Giustizia Penale 1993, Il, 573), così come ritenne che il vecchio peculato per distrazione dovesse essere assorbito dal nuovo reato di cui all’art. 323 c.p., altre volte ritenne, adottando una interpretazione ampia della condotta di appropriazione, che essa poteva ricomprendere condotte che in base al vecchio testo dell’art. 314 c.p. sarebbero state riconducibili alla condotta distrattiva. Da quanto detto risulta evidente che fortemente criticato è stato il ruolo di centralità assunto dall’art. 323 c.p. dopo la riforma, intorno ad esso gravitavano tutta una serie di condotte non specificatamente previste in altri delitti o da questi espunte, tra cui la distrazione. Si era creato un gigantesco contenitore che raggruppava un numero indeterminato di condotte ed in cui il difetto di tipicità della incriminazione appariva evidente. Al fine di evitare gli inconvenienti che la L. del ‘90 aveva creato, soprattutto con la riforma del reato di abuso di ufficio, che nella mente del legislatore avrebbe dovuto recepire la condotta di distrazione, il legislatore nel ‘97 con la L. 234, ha ridisegnato il reato di abuso di ufficio: introducendo una sorta di parafrasi diretta a delimitare meglio che nel passato il fatto tipico. Pertanto oggi il problema è quello di capire che cosa si intende per appropriazione nel nuovo testo dell’art. 314 c.p. e se nel concetto di appropriazione possa rientrare anche quello di distrazione, divenendo così punibile attraverso il reato di peculato. L’appropriazione non implica la creazione di un diritto di proprietà sul bene oggetto di peculato da parte del soggetto agente, poiché un diritto di proprietà non puo essere creato con una illecita appropriazione. Pertanto il soggetto agente crea una situazione di fatto in cui si comporta uti dominus nei confronti della cosa, escludendone il vero titolare. Comportamenti diversi, consistenti nel rifiuto di restituzione o in atti materiali di disposizione, altra valenza non hanno se non sono riconducibili alla volontà di appropriarsi del bene oggetto di reato. Da tale situazione di fatto discendono due diversi aspetti: da un lato, la c.d. espropriazione, consistente nell’esclusione del vero proprietario da qualsiasi rapporto con la cosa; dall’altro, la c.d. impropriazione consistente nella creazione di un rapporto di fatto con la cosa, è inoltre indifferente che la impropriazione sia voluta come permanente o come momentanea, né è necessario che siano esercitate tutte le facoltà inerenti al diritto di proprietà: basta l’esercizio di una qualsiasi di esse 67 Per quanto riguarda le singole manifestazioni esteriori, in cui si estrinseca la condotta di appropriazione, esse si sostanziano normalmente nella consumazione, nell’alienazione, nella ritenzione e nella distrazione.
La consumazione ha ad oggetto, ovviamente, cose consumabili, mentre l’alienazione può riguardare qualunque oggetto eccetto il denaro, tranne il caso in cui venga in considerazione come species ( ad es. monete di valore numismatico ). Per la ritenzione, perpetrata con la mancata restituzione della cosa, deve escludersi la rilevanza penale di un comportamento meramente omissivo, poiché il mero fatto omissivo di non restituire la cosa non costituisce indice univoco della volontà di appropriarsene. Pertanto, in questi casi è necessario un comportamento positivo quale, ad es., un rifiuto espresso di restituire, spedire l’oggetto in un luogo lontano, nasconderlo o restituire un oggetto simile ma di minor valore. La distrazione invece, costituisce una figura di portata più ampia, idonea a comprendere comportamenti non sussumibili nelle fattispecie della consumazione, dell’alienazione e della ritenzione.
Premesso che deve trattarsi di comportamenti che privano il vero proprietario della possibilità di esercitare i suoi diritti sulla cosa, a titolo esemplificativo può intendersi per distrazione, il trasferimento ad altri di una somma di denaro della quale si abbia il possesso o la disponibilità giuridica per ragioni d’ufficio; o il dirottamento, a utilità propria, di cose allo stesso titolo in possesso del soggetto agente, attuata quando il pubblico funzionario disponga arbitrariamente il versamento di una somma di denaro in favore proprio o di terzi.
La condotta appropriativa, ai fini della sussistenza del reato di peculato, deve provocare un danno nella sfera economica del soggetto cui la cosa appartiene; quindi, il delitto non si configura nel caso del mutamento di destinazione ( distrazione) di una cosa senza alcun valore o con valore estremamente esiguo. L’esercizio di un diritto, l’adempimento di un dovere e il consenso dell’avente diritto possono impedire il configurarsi della condotta tipica di appropriazione che dà luogo al peculato. Se viene riconosciuto il diritto a mutare la destinazione del bene, tale condotta risponde evidentemente ad un interesse superiore rispetto a quello tutelato dall’art.314 c.p., tanto più se è una norma speciale quella che consente la legittima di appropriazione.
L’ipotesi classica, peraltro non unanimemente condivisa in dottrina, è quella della compensazione, che si verifica allorché il pubblico funzionario vanti un credito certo, liquido ed esigibile nei confronti della pubblica amministrazione, e trattenga le somme di sua spettanza da quelle destinate all’amministrazione di appartenenza. Al contrario non sono sicuramente inquadrabili nella scriminante dell’esercizio del diritto, le piccole appropriazioni di carta da lettere, penne, ed altri articoli di cancelleria in genere, normalmente tollerati per consuetudine.
Ai fini dell’adempimento del dovere rileva la circostanza che se il comportamento astrattamente antigiuridico è imposto da una norma di legga o da un ordine legittimo dell’autorità, non si verifica appropriazione. Nell’ambito della scriminante del consenso dell’avente diritto, deve distinguersi a seconda che il consenso venga prestato su cosa appartenete alla pubblica amministrazione o su cosa di proprietà di privati. Mentre infatti, nel primo caso nessuno può legittimare con il proprio consenso una condotta appropriativa avente ad oggetto un bene della pubblica amministrazione (il consenso è pertanto irrilevante); nella seconda ipotesi, ben può accadere che un soggetto privato presti il suo consenso a che altri si appropri della cosa di sua proprietà.