di Pietro Citati
tratto da “La Repubblica” del  7 settembre 1996 

 

 

 

Sono arrivato nella Maremma toscana quarant’ anni fa, e da allora ci ho sempre vissuto qualche mese ogni anno. Scendevo da una perfetta città matematica come Torino; e dagli scogli e dagli ulivi della Riviera Ligure. Non avevo mai conosciuto un paesaggio come questo: ero abituato alle piccole proporzioni. Qui c’ è spazio: un immenso spazio; i maremmani hanno costruito poco, agito poco, comprendendo che la massima qualità dell’ uomo, mentre s’ affaccia al mondo, deve essere la discrezione. Non agire: lasciare che qualcosa accada, perché, comunque, accadrà. Non farsi vedere. Guidi la macchina per ottanta chilometri, e non trovi nessuno: solo grandi boschi di lecci, di castagni e di sughere, foreste alla Altdorfer, miniere abbandonate, un piccolo lago azzurro e verde come in un quadro di Poussin, una chiesa cistercense scoperchiata, una chiesa di onice, una cappella micenea, un paese con le torri e le case bianche di Giotto. E poi, all’ improvviso, ai piedi di un immenso castagno che ha conosciuto i secoli, vedi un alto pianoro: verdissimo, circondato da boschi. Pensi all’ “umile Italia” di Virgilio. Non c’ è nulla più antico di questo luogo: perfino i confini tra i campi devono essere quelli del quarto secolo; e t’ accorgi che proprio qui, milleduecento anni fa, si è accampato l’ esercito di Carlo Magno, che scendeva lentamente verso Roma. In questi quarant’anni ho conosciuto la fine della fattoria toscana. Era un microcosmo. Vi si coltivava il grano, il granturco, l’ulivo, la vigna, la frutta: c’ era la stalla; e un immenso pollaio. Il contadino era una specie di uomo universale: sapeva fare di tutto: conosceva ogni cultura; secondo le ore della giornata, era contadino, frutticoltore, giardiniere, boscaiolo, idraulico, elettricista, fabbro, muratore, falegname. Quale immenso deposito di sapienza agricola e umana, quale passione per la campagna, quale attenzione, quale scrupolo si siano raccolti nelle fattorie toscane, oggi è quasi impossibile immaginare.

 

 

SE ASCOLTIAMO LA VOCE DELLE PIAZZE D’ ITALIA

 

La sapienza nel prevedere, l’amore per la realtà, l’attenzione per ogni particolare, lo scrupolo nel non sprecare nulla, la precisione dello sguardo, la fermezza delle linee, una fantasia tanto più ricca quanto più segreta, una passione che nulla limitava, una specie di nobile dilettantismo… Sembrava, a volte, che dalla precisione di una potatura dipendesse la salvezza della terra. Non vorrei idealizzare quel mondo. Era tragico, chiuso, concentratissimo: vi si raccoglieva una intollerabile violenza di affetti, uno spaventoso senso del possesso, un odio verso tutto ciò che era straniero. Non c’ era mai un attimo di distensione. Pareva che un albero che non portasse un beneficio immediato, un gatto o un cane che si aggirassero liberamente nel giardino o nell’ aia fossero nemici che bisognava abbattere a ogni costo. Ora la civiltà delle fattorie è finita, e con essa, per sempre, la civiltà contadina. In apparenza, l’aria è più libera: non c’ è più quella tremenda concentrazione di passioni; il mondo è meno fosco e intenso. I contadini sono diventati operai agricoli. Coltivano (così almeno pare) gli ideali della televisione: adorano le stesse immagini adorate a Roma, a Londra e a New York, si sposano come in Beautiful o Dallas. Ma non c’ è più nulla, o quasi nulla, di quella passione per il lavoro ben fatto: non c’ è più quella attenzione per tutti gli aspetti dell’ esistenza; e quella miracolosa precisione. Chi ha mai detto che siano, anch’ esse, virtù tramontate? Sulla precisione e l’ attenzione, si fonda la civiltà moderna; e ho sempre pensato che gli antichi artigiani e gli antichi contadini sarebbero potuti diventare dei meravigliosi specialisti nella civiltà di oggi e di domani. Invece non è accaduto nulla di questo. La storia della cività umana è una storia di sprechi e di perdite. Non si conserva nulla o pochissimo: si getta. Così nasce un rimpianto sempre più grande per tutto ciò che si è perduto e non ritornerà mai più. Lo sguardo, la mente, le mani dell’ uomo della fattoria sembrano un simbolo inattingibile di perfezione.

 

L’ altra sera, insieme a degli amici, sono stato a Massa Marittima, il paese più bello della Maremma toscana. Si sale alla piazza. Uno stupendo duomo romanico ne occupa un angolo: in alto, spostato verso destra, come una grande nave fantastica che stia per salpare dal porto. Dentro la chiesa Duccio ha lasciato i suoi celesti e i suoi rosa; e un quasi ignoto scultore senese del Trecento ha scolpito, nell’ Arca di san Cerbone, montagne, alberi, orsi e oche più leggeri delle nuvole. Il palazzo del Comune e quello del Podestà hanno ancora le pietre bianchissime, rose dagli animali marini, di sette secoli fa. Il selciato non è cambiato: in alto pendono, protettrici e minacciose, le vecchie mura. Come accade tanto di rado, la vita moderna si è insinuata in quella antica senza violarla. Non ci sono quasi errori. Le insegne dei negozi si adattano ai vecchi palazzi: le pizzerie allungano le loro tende bianche senza offendere la chiesa, che continua a salpare verso Oriente. Tutto esiste, tutto vive e si agita perché esiste la piazza. La Toscana e l’ Umbria ne hanno molte come questa, ma forse nessuna esprime così perfettamente il genio italiano per il teatro all’ aperto. Ormai anche i turisti tedeschi e francesi hanno appreso a comportarsi come gli abitanti toscani del XIII secolo. Tra il duomo a strisce bianche e verdi e i palazzi bianchissimi, tutti convengono e si raccolgono: si mostrano, danno spettacolo di sé stessi, apparendo su uno scenario insieme reale e illusorio; e forse hanno l’ impressione che fra poco, di colpo, qualcuno possa arrivare da chissà dove, o che qualcosa di straordinario possa accadere. Intanto sono qui, in attesa, seduti a un tavolo della pizzeria. Ordinano la bruschetta, i funghi sott’ olio, le focaccine ripiene, il Morellino di Scansano; e scherzano o parlano tra di loro di cose intime e delicate, che si possono rivelare con discrezione solo in questa luce di tramonto, sotto la protezione della chiesa in fuga. Non si è mai soli. Tra le persone e le cose si stabilisce un rapporto, come se i volti, le pietre, i colori rosa e celeste di Duccio e i bicchieri di vino rosso e i funghi sott’ olio e le parole frivole o commosse formassero una sola rappresentazione. La vecchia piazza sorveglia tutto ciò che accade. I bambini si alzano e giocano sugli scalini della chiesa, gli stranieri ridono, qualcuno va a comprare del miele di castagno o un formaggio di pecora nel negozio vicino, qualcuno contempla in una vetrina agate, corniole ed onici: oppure, nei più caldi giorni di agosto, tra un palazzo e il duomo, una compagnia mette in scena Il ballo in maschera e Madame Butterfly, mentre la luna si sposta e illumina la piazza da sempre nuovi punti di vista. Tutto ciò che accade ha un timbro inconfondibile, come se l’ aura della vecchia città toccasse le cose. Le voci non sono mai troppo forti. I gesti sono composti. Ogni cosa ha la grazia lieve e la precisione fantastica dell’ Arca di san Cerbone. Per un momento, abbiamo la coscienza di essere abitati da figure antiche e di venire posseduti dal tempo, che non ha perduto la sua freschezza; e sappiamo che fra poco, quando torneremo a casa, i nostri gesti smarriranno il loro timbro. E da dove viene questa strana, irreale sensazione di felicità, che prende ogni sera ai Tre Archi o da Vanni? Non c’ è dubbio che sia la piazza a generarla: tanto grande è ancora la virtù di una piazza italiana; così grande da far dimenticare le sventure, le mediocrità e le noie della vita quotidiana. Il giovane padrone dei Tre Archi ci racconta che lui non è di Massa, ma di Prato. E’ arrivato qui vent’ anni or sono, e si è innamorato della piazza. “Vede – ci dice – non so perché, ma qui è sempre bello. Il mio lavoro è bello perché c’ è la piazza. Ogni tanto, durante il lavoro, o quando il lavoro è finito, io mi fermo a guardarla. A me piace sempre: quando è folta di turisti, come ora, e il caldo sale dal selciato: a settembre, quando ci sono soltanto gli stranieri; e anche nelle altre stagioni, quando è quasi vuota, alla pizzeria non viene nessuno, e un vento acutissimo colpisce la chiesa e le pietre. Non potrei mai lasciare la piazza”. Ho riflettuto alle parole del proprietario dei Tre Archi. Non è vero che l’Italia sia soltanto il paese di Umberto Bossi, di Antonio Di Pietro e di Michele Santoro; e dei personaggi che ogni giorno appaiono in televisione o danno interviste ai giornali, e ogni giorno ci informano dei loro pensieri. L’ Italia è ancora un paese fatto di regioni diversissime: in ogni regione, ci sono delle microregioni, e in ogni microregione ci sono molti paesi differenti tra loro, e quasi in ogni paese c’ è una piazza di Massa Marittima, che impone grazia ai suoi abitanti. Questa è l’Italia segreta, che forma il nascosto tessuto connettivo, la musica che si diffonde in tutto il paese. Non ha importanza che di questa musica non parli nessuno. Basta che ci sia, e che qualcuno sappia ascoltarla.

 

 

Lascia un Commento

Devi aver fatto il login per inviare un commento


Entra
IL NOSTRO SPOT
Categorie
GRAZIE PER LA VISITA