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di Antonio PREITI

tratto da   www.huffingtonpost.it

 

 

 

Qual è la più grande sfida che il paese può proporre a se stesso, qui e ora, in questo nostro tempo? Ce ne sono molte, naturalmente, e l’una non esclude le altre. Ma qual è quella che non possiamo farci sfuggire, che reclama la nostra attenzione e il nostro coraggio? È l’ambizione di concentrare la più grande capacità di creare valore nella cultura. Dove valore significa tutto: più gente nei musei, più investimenti, più coinvolgimento delle comunità locali e, soprattutto, che la cultura diventi il nostro ovvio, normale, naturale, primato nel mondo.

 

È impossibile? Forse era più difficile per Brunelleschi costruire la cupola del Duomo di Firenze, di quanto non sia per noi valorizzarla? Forse era più difficile costruire il Colosseo, di quanto non sia per noi renderlo vivo e farne il cuore di Roma? Forse era più difficile costruire la Via Appia, di quanto non sia per noi ridarle splendore e centralità?

 

Se vogliamo qualcosa che non abbiamo mai avuto, bisognerà fare qualcosa che non abbiamo mai fatto: cambiare pensiero sui beni culturali. Se ci fermiamo solo su cose che con la valorizzazione hanno poco a che fare, come le norme contro le guide turistiche di altri paesi; i monopoli delle audio-guide; al massimo, miglioreremo lo status quo. Bisogna, invece, passare da una logica di “spending review” a una di valorizzazione. Il progetto migliore non è quello che pesa meno sul bilancio pubblico, ma quello che valorizza di più, mobilità più risorse e attrae più talenti.

 

Il nuovo pensiero significa che i beni culturali non riguardano solo sovraintendenti, architetti, storici dell’arte, funzionari pubblici, ma tutta la società viva, le imprese, i comuni, i talenti lontani dalle burocrazie, insomma tutto il paese. Se non riversiamo in questo settore nuove tecnologie, la migliore cultura d’impresa, le meraviglie dell’entertainment nella loro versione education, la sensibilità verso il mondo contemporaneo, con i suoi conflitti e le sue sfide, resterà sempre un orto chiuso, uno mondo separato, una faccenda di pochi.

 

Cerchiamo allora di costruire le condizioni affinché l’Italia raggiunga questa primazia mondiale nella cultura. Ed è facile dire che bisogna raddoppiare o triplicare i fondi sul bilancio pubblico: una risposta troppo semplice, anzi una fuga dalle responsabilità. Perché la ristrettezza dei fondi è conseguenza, non causa del cono d’ombra entro cui i beni culturali dimorano.

Si può creare una politica industriale per i beni culturali (per quelli che stanno per alzare il dito, il termine industriale va inteso in senso lato, evocativo…) che sia in grado di raccogliere l’interesse anche delle grandi aziende globali del mondo. Siamo sicuri che se Apple o Google si occupassero dei nostri beni culturali non farebbero bene? Possono contare su una straordinaria concentrazione di sapere, di intelligenza e di risorse finanziarie. È possibile costruire, in generale, modelli gestionali in cui i gestori affrontino anche qualche rischio d’impresa e non si limitino solo a staccare i biglietti?

 

L’obiezione che arriva tutte le volte che s’indica una strada di coraggio e di emersione dei beni culturali dal recinto in cui sono costretti, è che la quantità uccida la qualità; si disegna un’apocalisse per l’invasione dei turisti, o delle imprese, o semplicemente della gente comune; si indica lo Stato come massimo tutore, per altro forzando molto la realtà, perché non tutto ciò che è pubblico deve coincidere con lo stato. Come se la dimensione di massa minacci l’obbligo di cura e tutela.

 

Non è forse abbastanza curato e tutelato il Metropolitan Museum di New York, che attrae oltre sei milioni di visitatori, è finanziato dalle più grandi aziende e trova svariate modalità di valorizzazione economica? Per altro questi musei, oltre alle mostre di livello mondiale, producono studi, pubblicazioni, ricerche e un’attività scientifica di grande spessore. Chi può affermare che l’abbondanza di risorse renda meno curato e tutelato un bene? La verità è che quando un’istituzione culturale, qualunque essa sia, è obbligata alla raccolta di fondi, deve produrre qualcosa che convinca persone e aziende a elargirli. Perciò s’ingegna a entrare in sintonia con il mondo esterno. 

 

Quando, con un tratto di penna, arrivano direttamente dallo Stato, quegli obblighi diventano meno vitali. È qui la differenza. Se si vogliono più visitatori, bisogna fare mostre interessanti; se si chiedono soldi a un’impresa, bisogna trovare un motivo convincente; se si chiedono soldi alla comunità locale, bisogna dimostrare di essere indispensabili, e così via. Il modo induce alla virtù.

 

Per questa ragione si vogliono capire le preferenze dei visitatori; s’impiantano tecnologie digitali per vedere quali opere suscitano il maggiore interesse; si fa l’analisi semantica delle conversazioni sui social media, perché quelle opinioni sono importanti; si usano i sondaggi demoscopici per misurare la percezione dei residenti (o dei turisti). Si apre tutto un mondo, quando si decide che i musei non sono luoghi separati dalla società, ma ne sono dentro.

 

Dobbiamo cambiare pensiero per essere fedeli allo spirito e al tempo in cui tanta bellezza è stata edificata. Le opere che ammiriamo, i palazzi che attraversiamo con i rumori dei nostri passi, le cattedrali che ci mozzano il fiato, sono nati da un humus straordinario, da immaginazioni temerarie e da decisori pubblici (li possiamo intendere anche così, i mecenati e le corti del tempo) lungimiranti e cultori della bellezza.

 

Molti dei capolavori che oggi contempliamo sono stati creati quando l’Italia, anzi le nostre città, erano capitali del mondo (lo era la Roma imperiale, lo era la Firenze rinascimentale) e chiese, monumenti, strade, palazzi, erano il frutto diretto di quelle eccezionali concentrazioni di sapere e di potere. Non sono nate nel vuoto, ma dentro un’idea di grandezza che l’impero, o le corti successive, avevano di sé.

 

Non meritano quelle opere di rivivere oggi la loro grandezza, con progetti che siano, anch’essi, i migliori del mondo? Non meritano, essendo fra le maggiori creazioni che l’umanità ha generato, di essere sviluppate con i migliori strumenti intellettuali di cui oggi si dispone? Non meritano di essere, nuovamente, e per strade nuove, capitali del mondo?

 

Il primato italiano si crea così: costruendo cattedrali d’ingegno sulla ricchezza che abbiamo ereditato, senza badare se la cosa giusta da fare non è mai stata fatta, o se l’idea più affascinante arriva da dove meno te lo aspetti. Leonardo, Michelangelo, cercavano i mecenati più ambiziosi, perché lo richiedeva l’arditezza della loro arte. Anche noi dobbiamo cercare i soggetti più ambiziosi, dovunque.

 

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