tratto da www.lanazione.it
Meno male che lo dice anche il cartellone ancora appeso al muro (d’epoca): “Fine lavori primo maggio 2003”. Meno male che i lavori vennero davvero conclusi per tempo, in meno degli 820 giorni previsti. Altrimenti non ci crederebbe nessuno: eppure capita che un ex carcere riadattato con un pregevole restauro a nuova sede del tribunale sia fatto e finito da dieci anni, e che da dieci anni sia inutilizzato. Totalmente inutilizzato.
Sta diventando vecchio, infissi scrostati e ruggine. Se non ci credete, venite a vedere. Basta piazzarsi in via delle Benedettine, Piacenza, 103mila abitanti affacciati sulla riva del Po. È tutto sotto gli occhi di chiunque, anche il frigorifero scassato impietosamente lasciato sul retro.
Non un’udienza, non un fascicolo, non una sentenza. Attività zero, nonostante i 3 miliardi e 888mila lire inizialmente stanziati e gli altri 600 milioni (sempre di lire) per gli immancabili interventi aggiuntivi. Totale (dai, lasciateci essere pignoli) 4.489.138.166 di lire. L’appalto venne gestito dal ministero dei Lavori pubblici, che per conto di quello della Giustizia sognava di realizzare una cittadella giudiziaria. L’edifico appartiene allo Stato, ma pare terra di nessuno.
Oggi se telefoni e poi passi a Piacenza può capitarti di sentire o incrociare le seguenti persone: primo, un architetto progettista che non si capacita; secondo, un ex sindaco del calibro di Giacomo Vaciago che parla di autentica follia e, terzo, un presidente del tribunale serio come Italo Ghitti (sì, quello di Mani Pulite) al quale tocca dire che «è vero, ma una soluzione la stiamo cercando e la troveremo». La stiamo cercando ora, anno 2013, dice. E Vaciago se la ride: «Lì dentro i giudici non ci entreranno mai».
Anna Lalatta, la progettista che si occupò anche dell’esecuzione dei lavori, non la pensa così: «Magari non ci entreranno mai, ma la verità è che fin dall’inizio tantissimi si erano messi contro. Volevano rimuovere il vincolo della Soprintendendenza. Volevano abbatterlo. Ma questo è un edificio storico. Poi hanno cominciato a dire che la gente non voleva andare a lavorare in un carcere». Pragmaticamente ci pensa il sindaco di oggi, Paolo Dosi, a riportare tutti con i piedi per terra: «Quando lo Stato non dialoga con gli enti locali e con le altre sue strutture non si fa molta strada: il progetto prese corpo senza averne prima discusso con i rappresentanti della Giustizia e senza consultare il Comune. E poi quello era un penitenziario. C’erano le cellette. E cellette sono rimaste, quindi piccole». I tecnici dell’Asl, a cose fatte, si erano messi a disquisire sui rapporti aeroilluminanti, sbagliati a loro dire. Se le finestre sono piccole (e in questo caso sono bocche di lupo), entra poca luce.
Così, dopo un miliardo di riunioni, il Comune aveva alzato la mano per fare una domanda: «Scusate, ma se questa struttura non è nostra, se dite che non va bene, perché dovremmo essere noi a pagare l’affitto e le spese? Con i suoi corridoi dai soffitti così alti riscaldare l’edificio costerà un patrimonio». Poi gli impiegati, correva l’anno 2003, minacciarono la serrata: «Non avete messo neppure l’impianto di condizionamento. Però avete lasciato le sbarre alle finestre: ma si può lavorare così?». Al che la progettista aveva davvero perso la pazienza: «Non è vero. Manca solo il gruppo refrigeratore, tutto qui. E le sbarre hanno il loro significato storico».
Circolare e inconcludente, il dibattito si è trascinato per anni. Poi si è spento anche quello, e il vecchio carcere (meglio: il nuovo tribunale) è diventato quel che è. Un monumento allo spreco.