tratto da www.corriere.it
Se e quando Matteo Renzi ed Enrico Letta si affronteranno apertamente per la guida del Pd e (elettori permettendo) del Paese non è dato sapere. Sul fatto che il campo degli aspiranti cavalli di razza del Pd ormai lo occupino loro, invece, molti dubbi non ce ne sono. Sì, cavalli di razza, proprio come mezzo secolo fa, nel lessico democristiano d’epoca, furono definiti, si parva licet, Amintore Fanfani e Aldo Moro. Perché possiamo anche classificarli genericamente come postdemocristiani (siamo tutti post qualcosa), ma resta il fatto che entrambi nel movimento giovanile dell’ultima Dc, e poi nel Partito popolare, hanno mosso i primi passi e si sono formati. E non nascondono né, tanto meno, rinnegano le loro origini. Anzi. Cronisti frettolosi scomodano, per ricostruirne gli alberi genealogici, Giorgio La Pira e Beniamino Andreatta. Non ce ne sarebbe bisogno. Assai lontani per carattere, cultura, stile comunicativo, e prima ancora per concezione della politica, Renzi e Letta a modo loro incarnano, o per meglio dire reincarnano, due anime assai diverse, ma non per questo irrimediabilmente antagonistiche, di una storia che all’antagonismo ha sempre preferito la conciliazione, magari in extremis, anche tra gli opposti. La storia di un partito e di un mondo nei quali, fin quando è stato materialmente possibile, le divisioni politiche e personali più aspre e le mediazioni più sofisticate hanno convissuto e si sono inestricabilmente intrecciate. Lasciando sempre con un palmo di naso chi scommetteva (a sinistra e non solo) sull’insanabilità delle contraddizioni democristiane, e sulla fine imminente dell’unità della Dc.
Il duello (nemmeno troppo a distanza) tra Renzi e Lettabasta, o dovrebbe bastare, a dimostrare che politici e commentatori a diverso titolo «nuovisti», trattando in questi ultimi vent’anni la tradizione politica e culturale dei cattolici democratici come un cane morto, hanno preso un colossale abbaglio. Ma la tenuta e la vivacità di questa tradizione, la capacità dei suoi esponenti di ritrovarsi nei momenti che contano (proprio ieri Dario Franceschini ha annunciato il suo voto per Renzi), nonché l’indiscutibile appeal dei contendenti non spiegano davvero tutto. Di mezzo, colossale, c’è la questione della sinistra italiana. O meglio di quel che resta di quella parte (maggioritaria) dei dirigenti, dei militanti e degli elettori fedeli del vecchio Pci che, traversate le stazioni del Pds e dei Ds, ha dato vita da socia fondatrice e da azionista di maggioranza al Pd. Prima o poi bisognerà pure raccontare nei dettagli questa storia. Qui, è sufficiente ricordarne l’esito, a lungo ritardato, a dir poco infausto.
I postcomunisti, che, secondo l’interpretazione più diffusa a destra, nel Pd la avrebbero fatta da padroni, lasciando agli altri soci, postdemocristiani in testa, il ruolo degli indipendenti di sinistra del tempo che fu, hanno clamorosamente perso la partita. Riducendosi progressivamente al rango di forza di interdizione, votata quasi esclusivamente a mantenere nei limiti del possibile le proprie posizioni di potere e le proprie rendite. Come se, accertatisi di aver gettato via il bambino, gli ex ds si fossero preoccupati soprattutto di non lasciar disperdere nemmeno una goccia di acqua sporca del loro passato. Può anche darsi che questo sia, in una certa misura, un cliché che gli è stato incollato addosso. Ma di sicuro non hanno fatto niente per liberarsene, e molto, troppo, per avvalorarlo: da ultimo impiccandosi all’improbabile tesi secondo la quale Renzi potrebbe benissimo governare l’Italia, ma non sarebbe capace di guidare il partito.
Intervistato dalla Stampa, uno tra i più intelligenti e colti tra loro, Gianni Cuperlo, ha voluto polemicamente ricordare a Renzi, sospettato, in caso di vittoria, di voler mandare in soffitta la sinistra interna, che «senza sinistra il Pd semplicemente non c’è». Basterebbe tenere a mente la composizione dell’elettorato democratico per riconoscere a Cuperlo più ragioni di quante comunemente gliene attribuisca la maggioranza dei commentatori: conquistare una quota, anche rispettabile, degli elettori del campo avverso non basta a vincere se, per farlo, si lascia emigrare (verso Grillo, verso Sel, verso l’astensione) buona parte dei propri. Ma, fossimo in Cuperlo e in chi la pensa come lui, terremmo bene a mente che, a portare Renzi a un’imprevista vittoria nelle primarie per la candidatura a sindaco di Firenze, fu soprattutto l’ancora più imprevisto soccorso rosso di militanti ed elettori di antica appartenenza al Pci prima, al Pds e ai Ds poi: desiderosi di sparigliare i giochi, cominciando con il togliersi di torno i gruppi dirigenti tradizionali e i loro candidati. La stessa cosa è avvenuta (in primo luogo, e non è un caso, nelle cosiddette regioni rosse) nelle primarie per la candidatura a Palazzo Chigi. E niente lascia supporre che non si ripeterà ancora, e su scala allargata. Di «morire democristiani» questi elettori non hanno sicuramente alcuna voglia. Di morire d’inedia, facendo da guardiani a un tempio ormai vuoto da un pezzo, probabilmente ancor meno.
Se lo dice Paolo Franchi, autore dell’articolo, ottimo giornalista ed ex responsabile nazionale della Federazione Italiana Giovani Comunisti (FIGC), c’è proprio da crederci.
Ma questa deriva post democristiana del PD, per chi è attento alla cronaca politica, non è una novità. Quando, nel corso delle ultime elezioni primarie del PD, fu chiesto ai candidati Presidenti del Consiglio quali fossero le loro figure politiche o storiche di riferimento
http://video.repubblica.it/dossier/primarie-pd-2012/primarie-le-figure-di-riferimento-dei-candidati/110561/108945
Gianluigi Bersani rispose PAPA GIOVANNI
Tabacci rispose DE GASPERI e MARCORA
Puppato rispose ANSELMI e IOTTI
Renzi rispose MANDELA
Vendola rispose il CARDINALE MARTINI
Nessuno rispose, tanto per fare un esempio Berlinguer, oppure Togliatti. Men che meno è stato fatto riferimento a straordinarie figure riformiste del socialismo democratico come Turati, Matteotti, Prampolini, Saragat (nds. per me lo è anche Craxi). Nemmeno Nenni, che pure è stato per molti anni compagno di strada del PCI, condividendo fino ai tragici fatti di Ungheria del 1956 il riferimento ideologico ai paesi comunisti dell’est, vincendo nel 1952 il premio Stalin.
Gli ex comunisti sono ormai avviati verso un tragico suicidio politico.
Non gli servirà a nulla nemmeno aggrapparsi a feticci ideologici come l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Per chi non lo sapesse, fu approvato con l’astensione del PCI ed il voto favorevole della DC e del PSI, guidati su questo percorso dalla saggia guida parlamentare dagli allora Ministri dell’Industria Donat Cattin e del Lavoro Brodolini.
Un vero peccato che i politicanti massetani (e non solo) non abbiano la tua stessa capacità di analisi.
Altrimenti capirebbero che la miscela che viene loro somministrata, sotto forma di omogeneizzato, altro non è che un concentrato di ideologia edulcorato con slogan e visionarie utopie; roba per gente che non sa masticare, alimento per l’avanguardia della retroguardia.
E pensare che basterebbe ragionare con la propria testa, per capire che non è tutto bianco o tutto nero.
Anche gli eredi politici della ex DC non sembrano essere messi molto meglio.
A destra non incidono. A sinistra, o non contano nulla oppure si segnalano per la frequenza con la quale perseguono cambi di casacca tra le correnti del PD, per continuare a gestire quella piccola nicchia di potere che ancora detengono. Al centro, semplicemente, non esistono.
Fa parziale corsa a parte Matteo Renzi che, come ogni buon ex DC, sa ascoltare la maggioranza silenziosa del paese e la crescente protesta per la cattiva politica, prospettando soluzioni coraggiose come quelle scaturite a Firenze alla riunione alla Stazione ex Leopolda, che però, senza scompaginare la squinternata compagnia politico amministrativa che lo sostiene, avrà difficilmente la possibilità di attuare.
Qualcuno, come Tabacci, mantiene una rispettabile autonomia di giudizio, ma non conta assolutamente nulla. Il resto è pula.
Casini è stato portavoce di Bisaglia e Forlani. L’unico incarico per il quale mi pare abbia davvero talento. Franceschini era l’ex responsabile nazionale dei giovani ex DC che, se non ricordo male, ottenne in virtù (si fa per dire) di un accordo politico stipulato in autostrada con il buon Pierferdinando. Gli altri mi sembrano buoni gregari. Magari con voti, ma sempre gregari.
A destra, gli ex socialisti mi sembrano molto meglio degli ex DC.
Se guardo ai vecchi leader, viene quasi da piangere. De Mita aderì al PPI, poi alla Margherita e poi, nel 2007, si dichiarò favorevole alla confluenza nel Partito Democratico. Quando, l’anno successivo, alla vigilia della presentazione delle liste elettorali, Veltroni chiese ai politici di lungo corso di farsi da parte, mentre Violante, Amato ed altri raccolsero l’appello, De Mita preferì confluire nell’UDC, che gli garantì un seggio in Parlamento.
Che bello quando prevalgono gli ideali sulle poltrone!!
Forse, allora, non aveva tutti i torti il povero avvocato Agnelli quando lo definì un intellettuale della Magna Grecia.
A livello locale, non mi sembrano messi meglio. Spesso la discriminante per le alleanze è quella di andare con chi offre di più. A volte trionfano vincoli parentali, diretti od acquisiti, e la qualità mi appare di livello infimo.
Sono pronto a scommettere che la prossima quantità di voti ottenuti sarà molto vicina a quella del prefisso di Torino. Tanti cari auguri